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Nel film “Il più bel secolo della mia vita”, in questi giorni al cinema, si accendono i riflettori su un tema spesso trascurato: l’impossibilità per i figli non riconosciuti, prima del centesimo anno di età, di avere accesso alle informazioni sulla donna che li ha messi al mondo. Il protagonista, il centenario Gustavo (interpretato da Sergio Castellitto), vuole cambiare la cosiddetta “legge dei cent’anni”, che impedisce di conoscere le madri dei figli non riconosciuti. Si avvale di Giovanni (l’attore Valerio Lundini), volontario dell’associazione dei figli adottivi e dei genitori naturali, per fare pressioni sul ministro dell’Interno. L’obiettivo è intervenire su una legge che, forse, stende un velo di tristezza sui volti di chi non è in grado di conoscere le proprie origini. «Se una persona non sa da dove viene – dice nel film Giovanni – è una persona infelice». Gustavo, con la saggezza della persona anziana, sostiene che «i figli non sono di chi li fa, ma sono di chi li ama».
Grazia Ofelia Cesaro, presidente dell’Unione nazionale Camere minorili, coglie l’occasione per chiarire alcuni aspetti messi in evidenza nella pellicola di Alessandro Bardani. «Nel nostro ordinamento – dice al Dubbio l’avvocata Cesaro - la legge sull’adozione prevede che l’adottato che ha compiuto venticinque anni, ovvero diciotto solo se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica, può accedere alle informazioni che riguardano le sue origini e all’identità dei propri genitori biologici con apposita istanza davanti al Tribunale per i Minorenni del luogo di residenza. I numeri di richieste, secondo una recente indagine dell’Istituto degli Innocenti condotta su 25 dei 29 Tribunali per i Minorenni, non sono elevatissimi ma in aumento: si è passati da 629 richieste dal 2012 al 2014 a 827 dal 2015 al 2017. Il problema si è però posto nel caso in cui la madre abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata con il cosiddetto “parto anonimo”, diritto legittimo, e situazione peraltro molto frequente in passato per i motivi che possiamo immaginare. Segreto che però impediva l’accesso ai suoi dati, cioè il rilascio del certificato di parto o della cartella clinica, solo decorsi i famosi cento anni dalla formazione del documento come previsto dal Codice privacy».
La Corte Costituzionale è intervenuta nel corso degli anni sulla materia. «Nel 2013 – spiega la presidente Uncm - la Consulta ha statuito il principio di “reversibilità del segreto”, dichiarando l’illegittimità della legge sull’adozione, la n. 184/1983, nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata nell’atto di nascita in merito all’eventualità di una revoca di tale dichiarazione, di fatto rendendo inoperativo anche quanto previsto dal Codice privacy. Le Sezioni Unite della Cassazione, nel 2017, hanno riconosciuto l’immediata applicabilità del principio statuito dalla Consulta, chiarendo che all’esito della pronuncia del 2013 sussiste il riconoscimento, in capo al figlio adottato, del diritto di avere accesso alle proprie origini. Tuttavia, ha chiarito la Suprema Corte, tale diritto dovrà bilanciarsi con l’eventuale perdurante volontà materna a mantenere l’anonimato, sicché in caso di interpello della medesima, ove la stessa confermi la decisione di non essere nominata, dovrà ritenersi preclusa la possibilità di conoscerne l’identità».
Cinque anni fa un altro intervento della Cassazione che ha esteso il raggio d’azione. «Con una pronuncia del 2018 – aggiunge Grazia Ofelia Cesaro - la Suprema Corte ha statuito e confermato l’importante principio secondo cui l’accesso alle origini deve essere esteso non solo ai genitori biologici, ma anche alle sorelle e ai fratelli, previo interpello, svolto con le modalità che assicurino la massima riservatezza “al fine di acquisirne il consenso all'accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell'esercizio del diritto”. Ciò a mio avviso molto opportunamente, perché sempre la recente indagine dell’Istituto degli Innocenti ha segnalato che tra le motivazioni alla base della richiesta di accesso, oltre alla conoscenza della propria storia familiare, l’identità della madre biologica e le motivazioni dell’abbandono, vi è anche la volontà di conoscere l’esistenza e l’identità di fratelli e sorelle biologici».
Se da un lato i giudici costituzionali e della Suprema Corte sono stati particolarmente attivi, dall’altro il legislatore è apparso distratto con la conseguenza che l’Italia è indietro rispetto ad altri Paesi. «Nonostante – sottolinea l’avvocata Cesaro - sia la Corte Costituzionale nel 2013 che la Corte di Cassazione nel 2017 e nel 2018 avessero sollecitato un intervento del legislatore per disciplinare nel dettaglio la procedura giurisdizionale di accesso alle origini su richiesta dell’adottato, ad oggi l’Italia è ancora priva di una legge in materia e il procedimento è rimesso alla prassi giurisprudenziale che può variare a seconda del Tribunale per i Minorenni di riferimento. Entrando nel merito della legislazione dei Paesi stranieri, si può citare il Briefing del Parlamento Europeo del giugno 2016 dal titolo Adoption of children in the European Union, che si occupa di mettere a confronto l’età in base alla quale è permesso ai figli adottati di poter aver accesso ai dati dei genitori biologici. Tutti gli Stati membri consentono ai figli adottivi l’accesso ai propri dati, sebbene l’età cambi da Stato a Stato. Ad esempio 12 anni in Belgio, 14 in Austria e Lituania, 16 in Germania, Paesi Bassi e Bulgaria, 18 in Lettonia, Polonia, Croazia, Grecia, Malta e Danimarca, 25 anni nella sola Italia. Variabile invece è di Stato in Stato la legislazione che consente ai genitori, adottivi o biologici, l’accesso ai dati personali del minore o dell’altra famiglia, biologica o adottiva. In caso di parto anonimo anche la Francia ha, da più tempo rispetto a noi, la possibilità della “revocabilità del diniego” e discolusure dei dati della madre attraverso un organismo indipendente all’uopo costituito».