La notizia era già ufficiale e il Dubbio l’aveva anticipata mesi fa, quando ancora l’idea era solo nell’aria. Ma oggi a certificare il definitivo salto di Michel Claise, il giudice istruttore del caso Qatargate, in politica, sono i manifesti col suo viso, accanto agli altri candidati del partito DéFi, in corsa per le politiche in Belgio.

Claise ha ora tutte le carte in regola per essere definito il Tonino Di Pietro belga: non solo la lotta ai politici corrotti nel suo curriculum, ma anche il passaggio alla politica, con la giustizia come principale obiettivo della propria campagna elettorale. Al centro del suo programma c’è la lotta contro la frode e la corruzione, battaglia da vincere con la creazione di una procura finanziaria nazionale e di un’agenzia anticorruzione e il rifinanziamento massiccio della giustizia - anche per riempire le casse dello Stato.

Claise, in un’intervista a leecho.be, dice di lavorare «più duramente oggi di quando era giudice». Posizionato al terzo posto nella lista DéFI, dietro al presidente François De Smet e alla deputata Sophie Rohonyi, l’ex giudice-scrittore prova a spuntarla, nonostante i sondaggi disastrosi, secondo i quali il per i federalisti francofoni è previsto un solo deputato.

Subito dopo gli arresti del Qatargate, DéFi aveva cavalcato il momento, ricordando come «la posta in gioco non è altro che la salvaguardia della nostra democrazia, consolidando l’indipendenza dei poteri e quindi ridando fiducia e speranza alla politica». Claise, in quel momento storico, rappresentava il baluardo della lotta alla corruzione, infaticabile e inossidabile, ma soprattutto senza macchia.

A metà del 2023, però, è arrivata la sua uscita di scena dal caso, a seguito della scoperta dei rapporti tra suo figlio e il figlio dell’eurodeputata belga Maria Arena, uno dei nomi più ricorrenti nel fascicolo, ma coinvolta ufficialmente molti mesi dopo, nonostante la chiamata in causa (poi rimangiata) del principale protagonista di questa vicenda, l’ex eurodeputato Antonio Panzeri, al quale, stando al dossier dei suoi avvocati, gli inquirenti chiesero di fare altri nomi, come quello dell’ex vicepresidente Eva Kaili. Panzeri, oggi, stando alla voce del principale investigatore del caso, non sarebbe «credibile», secondo gli inquirenti, che però non ci stanno a mollare la presa.

Su Claise si era interrogato anche l’ex ministro della Giustizia e oggi deputato Pd Andrea Orlando, che mesi fa ha presentato un’interpellanza al ministro degli Esteri e al Guardasigilli - ancora senza risposta - per chiedere chiarimenti sulle possibili violazioni dei diritti ai danni degli indagati italiani coinvolti nel caso. Partendo proprio dalla rinuncia di Claise al caso, che ha gettato più di un’ombra sulle indagini. Ma al di là del conflitto d’interessi, sul quale sembrano esserci pochi dubbi, a impensierire il deputato dem sono soprattutto i metodi di indagine, contrari allo Stato di diritto. A partire dal coinvolgimento dei servizi segreti, che hanno di fatto spiato gli europarlamentari entrando in borghese nelle Commissioni parlamentari e violando la loro immunità, continuando, inoltre, ad indagare anche una volta che il fascicolo è stato trasferito all’autorità giudiziaria.

Ma non solo: gli elementi sui quali fare chiarezza, secondo Orlando, sono molteplici. Come la confessione «estorta», a dire dei suoi legali, a Panzeri, in cambio di una pena lieve, il mantenimento del proprio patrimonio e della scarcerazione di moglie e figlia, i tre giorni insieme in cella di Panzeri e Francesco Giorgi, suo ex assistente parlamentare e marito di Kaili, proprio mentre i due stavano rilasciando dichiarazioni alle autorità, e le pressioni costanti per avere nomi dall’ex vicepresidente, al punto da arrivare ad ipotizzare l’affido della figlia ai servizi sociali.