Francesco Zito non aveva stretto un patto con gli ‘ndranghetisti della sua zona, anzi, ne era vittima. Ed è per questo che quei 158 giorni in custodia cautelare rappresentano un caso di ingiusta detenzione, per la quale va risarcito. Ma non solo: il danno d’immagine, anche se solo a livello locale, è stato tale, per un imprenditore come lui, che la somma matematicamente prevista dalla legge va raddoppiata.

A stabilirlo è stata la Corte d’Appello di Catanzaro, che ha disposto un risarcimento pari a 47.635,64 euro, somma che lo Stato dovrà versargli dopo averlo costretto, ingiustamente, a 26 giorni di carcere e 152 giorni ai domiciliari. Francesco Zito, imprenditore noto a livello calabrese nel campo della vinificazione e della commercializzazione del vino, era stato arrestato insieme al fratello Valentino l’8 gennaio 2018, su richiesta della procura di Catanzaro, all’epoca guidata da Nicola Gratteri.

A casa sua si presentarono uomini dei reparti speciali dei Carabinieri che indossavano il passamontagna, mentre il fratello veniva ammanettato su un autobus, di ritorno da un ospedale dove la figlioletta si trovava ricoverata gravemente malata. Per i due si aprirono le porte del carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Erano finiti nella rete dell’operazione Stige, come il fiume dell’odio che attraversa gli inferi, «la più grande operazione degli ultimi 23 anni», disse Gratteri subito dopo gli arresti.

I due, sin dall’inizio, respinsero tutte le accuse, senza essere però creduti. Per la procura avevano agevolato le cosche di Cirò accettando la richiesta di due presunti capi clan di produrre delle bottiglie di vino per conto loro. I fratelli Zito da anni, in effetti, imbottigliavano il vino e lo consegnavano a terzi, emettendo fattura. Ma i due presunti ‘ndranghetisti non pagavano. Sulla base di un patto, secondo la procura, per la quale clan e imprenditori facevano affari insieme. Ma di fatto si trattava di un vero e proprio furto.

Gli avvocati Enzo Ioppoli e Francesco Verri consegnarono ai giudici «una valigia piena di documenti, testimonianze, conti». Spiegarono che il vino era sì stato prelevato, ma il conto non era mai stato saldato. Insomma, i fratelli Zito erano stati costretti a consegnare quelle bottiglie. Il Riesame, che li ascoltò a notte fonda, decise di farli uscire dal carcere, dopo un mese, ma li mandò ai domiciliari. Gli avvocati, allora, portarono tutto in Cassazione, dove i giudici annullarono la misura cautelare senza rinvio per Francesco, con rinvio per Valentino.

Che solo la seconda volta davanti al Tribunale della Libertà si sentì dire, finalmente, che non c’era gravità indiziaria. Anzi, c’era il rischio, scrivevano i giudici, che queste due persone fossero vittime. Ciononostante, la procura guidata da Gratteri chiese il rinvio a giudizio di Francesco Zito. Che scelse il rito abbreviato, al termine del quale il gup di Catanzaro lo assolse perché il fatto non sussiste. Nel frattempo, però, anche la casa vinicola era stata sequestrata, rimanendo in mano allo Stato fino a dicembre del 2018. Con tutte le conseguenze del caso: reputazione distrutta, fatturato ridotto, risoluzione di contratti e nuove opportunità abortite.

Nel 2022, Ioppoli e Verri hanno chiesto l’indennizzo per ingiusta detenzione. Indennizzo riconosciuto dai giudici di Catanzaro, secondo cui l’accusa si è rivelata «sfornita di un adeguato supporto probatorio» e «ab origine delle condizioni di applicabilità previste dall’art. 273 cpp». E anche se di norma, per la Cassazione, il clamore mediatico è irrilevante ai fini di una maggiore quantificazione dell’indennizzo, il caso di Zito «assume caratteristiche peculiari perché (...) la circostanza che l’istante sia un imprenditore noto a livello calabrese nel campo della vinificazione e della commercializzazione del vino deve essere tenuta presente, ad avviso della Corte, ai fini di un aumento della quantificazione dell’indennizzo che tenga conto delle verosimili conseguenze che la notizia della misura cautelare a suo carico possano essersi determinate a livello di maggiore difficoltà di commercializzazione del prodotto».

Questa sentenza, commenta al Dubbio l’avvocato Verri, «è il primo o uno dei primi indennizzi per ingiusta detenzione riconosciuti dalla Corte d’Appello di Catanzaro nel procedimento Stige. Il raddoppio dell’importo base - che di solito si ottiene dividendo la cifra massima prevista dalla legge per il numero di giorni di detenzione - è un segnale importante. Si riconosce finalmente il pregiudizio economico imposto anche all’impresa (e ai suoi soci) a causa della ingiusta privazione della libertà subita dall’imprenditore. Non è ancora abbastanza, intendiamoci. Manca una legge che preveda il risarcimento da sequestro sbagliato e da cattiva amministrazione giudiziaria - aggiunge il legale -. Anche se la Corte di Strasburgo si pronuncerà presto su questo tema, nel caso Cavallotti ma anche in un altro mio procedimento. Ma vorrei aggiungere anche un’altra considerazione. Credo che lo Stato non si possa permettere tutto questo. Mi riferisco alla ricaduta negativa di questi processi fallimentari sul prodotto interno lordo e al valore degli indennizzi da ingiusta detenzione. Nel processo Stige ci sono state oltre 100 assoluzioni su 169 arresti, molte definitive. Visto che a Zito sono stati accordati 47 mila euro, se tanto mi dà tanto c’è il rischio che lo Stato paghi ai 100 imputati assolti quasi 5 milioni di euro».