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Per il tribunale di Brescia, l’ex procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro nascosero prove utili alle difese del processo Eni-Nigeria, finito con l’assoluzione di tutti gli imputati. Ed è per questo motivo che la Corte presieduta da Roberto Spanò li ha condannati a 8 mesi di reclusione per rifiuto d’atti d’ufficio, accogliendo la richiesta dei pm Francesco Milanesi, Donato Greco e del procuratore Francesco Prete. I giudici hanno però concesso ai due magistrati le attenuanti generiche e, a differenza di quanto chiesto dalla procura, la sospensione condizionale della pena, con la non menzione.
Secondo l’accusa, le due toghe, prese dal voler «vincere a tutti i costi il processo Eni-Nigeria», si sarebbero poste «in insanabile contrasto con il ruolo del pm». Per raggiungere tale risultato avrebbero infatti omesso di mettere a conoscenza degli imputati gli elementi segnalati dal pm Paolo Storari, «utili e pertinenti a valutare la inattendibilità» dell’accusatore di Eni e coimputato Vincenzo Armanna. E a prescindere dalla fondatezza dell’allarme lanciato da Storari - poi rivelatosi vero -, i due magistrati avevano «l’obbligo di depositare quei documenti», indipendentemente «dalla personale interpretazione» circa la loro rilevanza probatoria.
Il loro comportamento era stato stigmatizzato anche dal presidente del collegio giudicante Marco Tremolada, che ha poi duramente criticato i due magistrati nelle motivazioni della sentenza Eni. Tra gli atti omessi c’è un video girato in maniera clandestina da Piero Amara, l’ex avvocato esterno di Eni che ha svelato l’esistenza della fantomatica - e smentita - “Loggia Ungheria”, video che testimoniava un fatto clamoroso: la volontà di Armanna di ricattare i vertici Eni e avviare una devastante campagna mediatica. Proprio per tale motivo, si sarebbe adoperato per «fargli arrivare un avviso di garanzia». E proprio due giorni dopo l’incontro immortalato in quel video, Armanna si presentò in procura per accusare i vertici della società.
Il contenuto di quel filmato, per i giudici che hanno assolto i vertici Eni, era di per sé «dirompente in termini di valutazione dell’attendibilità intrinseca perché rivela che Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare» la società petrolifera «preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda”» sui suoi dirigenti. Ma non solo. Il pm Storari aveva avvisato i colleghi della possibilità che Armanna e Amara fossero due calunniatori. Dopo gli interrogatori di Amara nell’ambito dell’inchiesta sul falso complotto Eni, infatti, Storari trasmise a De Pasquale e Spadaro delle chat trovate nel telefono dell’ex manager, dalle quali sarebbe emerso come quest’ultimo avesse versato 50mila dollari al teste Isaak Eke per fargli rilasciare delle dichiarazioni accusatorie nei confronti di alcuni coimputati.
Il ruolo di Eke nel processo Eni era centrale: era lui, infatti, l’ipotetica fonte di tutte le informazioni di cui era in possesso Armanna relativamente alla presunta corruzione e ai pagamenti indebiti. Armanna aveva inoltre prodotto delle conversazioni whatsapp con l’ad Claudio Descalzi e il capo del personale Eni Claudio Granata, per dimostrare che gli stessi gli avrebbero chiesto di ritrattare o attenuare le accuse di corruzione nel caso Opl245 in cambio della riassunzione e guadagni importanti tramite la società nigeriana Fenog. Ma secondo una perizia informatica richiesta dall’allora procuratore aggiunto Laura Pedio sul telefono di Armanna - mai sequestrato prima del luglio 2021, nonostante quei messaggi fossero stati anche consegnati strumentalmente al Fatto Quotidiano - quelle chat sarebbero un falso clamoroso.
Secondo la perizia, infatti, i messaggi inviati dall’ex manager a Granata e Descalzi non sono mai arrivati ai destinatari da lui indicati, anche perché i numeri ascritti ai due all’epoca non erano nemmeno attivi e, quindi, non esisteva alcun traffico telefonico. Fatti ignorati dai due pm, che però hanno tentato di inserire - senza riuscirci - Amara nel processo, sfruttando solo una parte delle sue dichiarazioni, secondo le quali i legali di uno degli imputati del processo Eni-Nigeria sarebbero stati in grado di avvicinare il presidente Tremolada. Una notizia poi rivelatasi infondata: la procura di Brescia, infatti, ha archiviato l’indagine senza alcuna iscrizione nel registro degli indagati.
Proprio a causa di questi comportamenti, il Csm, a maggio scorso, aveva “retrocesso” De Pasquale, passato dal ruolo di aggiunto a quello di pm. Nel deliberare la non conferma nel ruolo, Palazzo Bachelet aveva evidenziato «l’assenza dei prerequisiti della imparzialità e dell’equilibrio, avendo (De Pasquale, ndr) reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo rispetto alle parti nonché senza senso della misura e senza moderazione».
I due imputati si sono difesi in aula dichiarando che gli elementi raccolti da Storari erano «ciarpame» trasmesso in maniera non formalmente spendibile. Quel materiale avrebbe potuto sì essere richiesto al collega, ma il primo comma dell’articolo 430 del codice di procedura penale, ha spiegato in aula l’avvocato Massimo Dinoia, prevede una facoltà, per i pm, di attività integrativa d’indagine, che non può diventare un obbligo. De Pasquale e Spadaro, dunque, avrebbero deciso legittimamente di non avvalersi di tale facoltà, non richiedendo a Storari documenti ritenuti inutili. Ma non solo: secondo De Pasquale, la testimonianza di Armanna non era decisiva per il processo, in quanto la responsabilità degli imputati sarebbe emersa dalle prove documentali.
Dichiarazioni, queste, che avevano spinto la procura a chiedere persino il diniego della sospensione condizionale, sostenendo che, rimanendo libero e in servizio, avrebbe potuto reiterare il reato. Secondo i pm di Brescia, la tesi difensiva sarebbe però inaccettabile: «L’attività integrativa di un’indagine - hanno dichiarato in aula - va depositata indipendentemente dal fatto che il pm l’abbia svolta personalmente o l’abbia ricevuta da altra autorità giudiziaria, perché il giudizio di rilevanza su quell’attività non è di esclusivo appannaggio del pm, ma anche della difesa. Nel nostro ordinamento il pubblico ministero agisce sempre e comunque nell’interesse della giustizia e mai in quello proprio, con il corollario dell’indifferenza sua all’esito del processo».
Le motivazioni della sentenza verranno depositate tra 45 giorni. La difesa ha già annunciato il ricorso, ma per Dinoia si tratta di «un pericoloso precedente - ha spiegato al Dubbio -, perché pone in forse adesso addirittura il principio dell’autonomia processuale del pm. Era una situazione molto particolare: l’accusa è che i due pm non hanno depositato dei documenti, non prove, che è una cosa diversa. E i due pm questi documenti non li avevano, è pacifico. Avrebbero dovuto chiederli, ma il pm, in base all’articolo 430, è padrone di fare o non fare attività integrativa d’indagine. Se una persona esterna al processo, come Storari, può dire “devi fare questo e compiere questa attività di indagine pur non sapendone nulla di quel processo” e si rischia di andare in galera - ha concluso - i processi saranno condizionati dall’esterno. Basta mandare degli atti e il pm sarà obbligato a depositarli».
«Si tratta di una sentenza giusta. I Pubblici Ministeri sono Magistrati tanto quanto lo sono i Giudici e non possono e non devono nascondere prove, anche quando non sono favorevoli all’accusa. Un caso che non dovrà ripetersi e che non deve scalfire la fiducia nell’operato dei Pubblici Ministeri», commenta invece Pasquale Annicchiarico, partner dello studio legale Dentons e avvocato di Gianfranco Falcioni, ex console onorario per l’Italia in Nigeria ed unica parte civile nel dibattimento.