Era il 9 agosto del 1991 quando il magistrato Antonino Scopelliti, allora 56enne sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, venne assassinato in un agguato mafioso a pochi chilometri da casa, mentre rientrava nella frazione Ferrito di Villa San Giovanni, dove si trovava per le vacanze estive. Da allora, la sua uccisione rappresenta una delle pagine più oscure nella storia della lotta alla mafia in Italia.

Scopelliti, entrato in magistratura a soli 24 anni, aveva condotto alcune delle inchieste più delicate del Paese, tra cui quelle sulla strage di Piazza Fontana, il caso Moro e il sequestro dell’Achille Lauro. Al momento del delitto, stava preparando le requisitorie contro i ricorsi dei boss mafiosi condannati nel maxiprocesso a Cosa Nostra.

Secondo la ricostruzione degli inquirenti e il contributo di diversi collaboratori di giustizia, fu proprio la cupola mafiosa siciliana a volere la sua eliminazione, affidando l’esecuzione ai clan della 'ndrangheta reggina. La morte di Scopelliti venne così decisa come atto strategico: in cambio dell’omicidio, Cosa Nostra avrebbe favorito una tregua nella guerra di mafia che stava insanguinando Reggio Calabria.

L’agguato

Scopelliti fu colpito alla testa da pallettoni esplosi da fucili calibro 12. A sparare furono almeno due sicari a bordo di una moto, appostati lungo la strada provinciale. L’auto del magistrato, una BMW 318i, finì fuori strada: all’inizio si pensò a un incidente, poi l’evidenza balistica rivelò l’esecuzione.

I processi e le assoluzioni

Due distinti procedimenti vennero celebrati a Reggio Calabria: uno contro Salvatore Riina e altri esponenti della Commissione di Cosa Nostra, l’altro contro Bernardo Provenzano e altri sei boss tra cui Santapaola e Graviano. Nonostante le condanne in primo grado, tutti furono assolti in appello tra il 1998 e il 2000 per mancanza di riscontri univoci.

Le dichiarazioni dei collaboratori e la riapertura del caso

Nel 2012, nell’ambito del processo “Meta” sulla 'ndrangheta, il pentito Antonino Fiume parlò del delitto su incarico di Cosa Nostra, ma senza indicare i nomi degli esecutori. La svolta arrivò nel 2018 con le rivelazioni di Maurizio Avola, ex sicario del clan Santapaola, che si autoaccusò dell’omicidio, indicando anche il luogo dove sarebbe stata nascosta l’arma del delitto. La Procura di Reggio Calabria, con il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, riaprì formalmente l’inchiesta nel 2019, iscrivendo nel registro degli indagati 17 persone, tra cui anche Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano catturato nel 2023 dopo trent’anni di latitanza.