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«Sull'assoluta anomalia della misura adottata dal sottufficiale imputato non possono, in concreto, nutrirsi dubbi di sorta in quanto non solo la stessa non è espressamente prevista (e il dato non è solo meramente formale) da alcuna disposizione di legge, ma la totalità dei testi cui la relativa domanda è stata posta nel presente procedimento ha escluso, nonostante trattasi di soggetti con diversi anni di esperienza in attività di polizia giudiziaria, di aver mai proceduto o assistito al bendaggio di un fermato, procedura infatti che non rientra certo nelle prassi operative delle forze di polizia italiane».
È quanto scrive il giudice monocratico di Roma Alfonso Sabella nella sentenza con cui lo scorso febbraio ha condannato a due mesi, pena sospesa, Fabio Manganaro, il carabiniere accusato di misura di rigore non consentita dalla legge per aver bendato Gabriel Natale Hjorth nella caserma di via in Selci dopo il fermo dei due americani, Hjorth e l’amico Finnegan Elder Lee, per l’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, ucciso con undici coltellate nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2019 nel centro della Capitale.
Nel corso del procedimento l’imputato aveva riferito di aver bendato il giovane americano per calmarlo. Tesi che non ha convinto il giudice. «Il tribunale – si legge nelle motivazioni della sentenza - non riesce a comprendere bene la relazione tra il bendaggio di un individuo in un contesto quale quello chiaramente emerso in dibattimento e la necessità di tranquillizzarlo ritenendo che, a differenza di quanto avviene per gli uccelli rapaci quando vengono privati degli stimoli visivi, un essere umano appena aggredito con quelle modalità dovrebbe, all'esatto contrario, agitarsi molto di più non potendo nemmeno vedere se qualcuno si appresta a colpirlo e da che punto arriva la minaccia (e del resto lo stesso Manganaro ha dichiarato anche di avergli coperto gli occhi... per disorientarlo)».
Per i legali di Gabriel Natale, gli avvocati Francesco Petrelli e Fabio Alonzi, le motivazioni con le quali il giudice ha giustificato la condanna dell’autore di quel gesto «ci appaiono solide ed approfondite, con interessanti riferimenti anche ai limiti di applicazione dei cd. regimi speciali ex art. 41 bis, e alle norme convenzionali e costituzionali di riferimento, poste a tutela dell’umanità dei trattamenti restrittivi e della dignità della persona». Il giudice ha ribadito in tal senso «“l’assoluta anomalia della misura adottata” chiarendo che la stessa “non rientra certo nelle prassi operative delle Forze di polizia italiane”».
La condotta dell’imputato – come si legge in sentenza – «fu produttiva di una “condizione inutilmente mortificante e gravosa per il fermato” e ciò appare sufficiente ad integrare il reato di abuso di autorità» . Come ricostruito nel processo, Gabriel Natale, mentre era bendato e ammanettato, venne infatti anche video ripreso e fu sottoposto a una sorta di interrogatorio del tutto informale da parte del carabiniere Varriale, che si svolse peraltro - come ricostruito in sentenza – con modalità caratterizzate da particolari definiti dal giudice “inquietanti” come quello emerso dalla visione del video stesso della presenza di un soggetto (non identificato) collocato alle spalle di Natale che durante l’interrogatorio “tiene saldamente con una mano la testa di quest’ultimo”.
Il giudice dà atto nelle sue motivazioni di tali situazioni, «ribadendo non solo che “il bendaggio di un fermato non è una misura di rigore consentita dalla legge italiana”, ma che la stessa era risultata in quel caso “certamente umiliante”». Si legge ancora in sentenza che, “a giudizio del Tribunale”, il gesto dell’imputato Manganaro di bendare Natale «“può trovare solo una giustificazione individuabile nella necessità di impedire al fermato di memorizzare i volti di coloro che potevano aggredirlo in quel frangente”», concludono i legali. Intenti aggressivi, parzialmente portati a compimento, dei quali il giudice rinviene prova nel contenuto piuttosto esplicito delle chat dei militari acquisite agli atti del processo all’esito di perizia informatica. Uno di questa diceva: “speriamo che gli fanno fare la fine Cucchi”, un’altra suggeriva di “squagliarli nell’acido”.