Fine pena mai. Il verdetto nei confronti di Filippo Turetta è accolto in religioso silenzio, l’aula impassibile: a un anno dalla morte di Giulia Cecchettin, uccisa l’11 novembre 2023, la Corte d’Assise di Venezia presieduta da Stefano Manduzio lo ha condannato all’ergastolo per omicidio volontario aggravato, sequestro di persona e occultamento di cadavere.

I giudici hanno escluso le aggravanti della crudeltà e dello stalking contestate dalla procura, riconosciuta invece quella della premeditazione. La difesa di Turetta, reo confesso dell’omicidio, aveva chiesto che cadessero tutte, e che in ogni caso fossero riconosciute le attenuanti generiche “in termini di equivalenza e subvalenza”. L’imputato è stato inoltre condannato all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e al pagamento di una provvisionale di 500mila euro al padre della vittima. Riconosciuti risarcimenti provvisionali di 100mila euro per la sorella Elena, 100mila per il fratello Davide, 30mila per la nonna Carla Gatto e 30mila per lo zio paterno Alessio.

«È stata fatta giustizia e la rispetto, ma dovremmo fare di più come esseri umani», è il primo commento di Gino Cecchettin dopo la lettura della sentenza. «La mia sensazione è che abbiamo perso tutti come società, la violenza di genere non si combatte con le pene ma con la prevenzione. Come essere umano mi sento sconfitto, come papà non è cambiato nulla rispetto a ieri», chiarisce papà Gino. Protagonista di un episodio immortalato dalle telecamere prima che cominciasse l’ultima udienza, quando Giovanni Caruso, difensore di Turetta insieme all’avvocata Monica Cornaviera, si è avvicinato al suo banco e gli ha stretto la mano. Un gesto che, a un passo dall’epilogo in primo grado, liquida anche tutte le polemiche nate a seguito delle arringhe difensive, giudicate offensive e umilianti per la memoria di Giulia da suo padre Gino, che aveva affidato il suo commento ai social senza specificare a quali delle parole pronunciate dagli legali si riferisse.

La stretta di mano è stata replicata anche con la nonna della vittima: «La capisco umanamente, ma il mio lavoro non è facile», le parole pronunciate a bassa voce dal legale Caruso. Il quale, in aula, aveva provato a smontare la tesi dell’accusa rispetto alle tre aggravanti contestate. A partire dalla premeditazione: secondo gli avvocati del 22enne, infatti, la famosa lista con le cose da comprare e le azioni da svolgere compilata il 7 novembre 2023, non proverebbe affatto che il delitto sia stato premeditato. Al contrario, l’imputato avrebbe agito «in preda all’emotività, con concitazione». Circostanza che per la difesa escluderebbe anche la crudeltà, «incompatibile con le alterazioni emotive della condotta» racchiusa nelle 75 coltellate inflitte alla vittima con un coltello.

Di segno opposto la ricostruzione del pm, che ha chiesto l’ergastolo, sottolineando nel corso della requisitoria come le lesioni rinvenute nel corpo di Giulia mostrino «l’evidenza di una particolare brutalità». Per l’accusa, Turetta, che «aveva tutte le possibilità e gli strumenti culturali per scegliere», decide di uccidere. Prima dell’omicidio si appunta ciò di cui ha bisogno: coltelli, nastro per legarla e impedirle di urlare, cartine stradali per la fuga, contanti per evitare di essere rintracciato, sacchi neri. Di fronte all’ennesimo rifiuto di tornare insieme, dopo la fine della relazione, decide di agire.

Delle tre aggravanti contestate, resta dunque il nodo relativo agli atti persecutori: se per l’accusa l’omicidio «è l’ultimo atto del controllo» esercitato sull’ex fidanzata, coetanea e laureanda in ingegneria biomedica, per la difesa Filippo ne era certamente ossessionato, ma Giulia non avrebbe avuto paura di lui, come dimostrerebbe la decisione di incontrarlo quel tragico 11 novembre al centro commerciale “Nave de Vero” per comprare il vestito di laurea.

Quanto è successo prima di quel momento e subito dopo - dalla prima aggressione al tragitto verso la zona industriale di Fossò, fino alla fuga in Germania e all’arresto di Turetta - è emerso nel corso del processo lampo iniziato a settembre e concluso oggi dopo sole cinque udienze. Alle quali ha preso parte anche Turetta, incrociando per due volte Gino Cecchettin. La prima volta il 25 ottobre, quando l’imputato è stato interrogato per ore, ribadendo in aula di aver ucciso Giulia.

La seconda volta oggi, nel corso dell’ultima udienza, che si è conclusa senza repliche del pm e delle parti e senza dichiarazioni spontanee di Turetta, prima che i giudici si riunissero in camera di consiglio per sei ore per stabilire la condanna. «Ha compreso la decisione, gliene ho spiegato il senso. È un po’ stordito per certi versi. Mi ha ringraziato con la timidezza che avete imparato a conoscere», spiega Caruso, che valuterà se presentare ricorso in appello dopo avere letto le motivazioni che saranno depositate entro 90 giorni. Al centro del dibattito l’entità della pena comminata: una «pena inumana e degradante», secondo la difesa, che aveva definito l’ergastolo come «il tributo che lo Stato di diritto paga alla pena vendicativa».