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Parigi non è più la stessa e mai più tornerà ad essere quella che è stata per noi che l’abbiamo conosciuta ed amata. Le mancherà il cuore sistemato al centro dell’Ile de la Cité, nel mezzo della Senna grigia dentro la quale i desideri e le malinconie e i sogni nascono e muoiono un’infinità di volte ogni giorno affacciandoci dagli alti parapetti. A pochi metri dalle acque torbide del fiume nelle quali si sono consumate nei secoli nefandezze pubbliche e orrende miserie private, le fiamme di Notre- Dame hanno bruciato non soltanto un imponente edificio simbolo di una storia antica e dell’identità di un popolo, ma un sentimento collettivo che si riassumeva nell’infinita bellezza sprigionante da pietre, legni, opere d’arte e soprattutto dall’aura di sacro che ha sempre avvolto chiunque ha varcato la soglia della grande cattedrale.
Quelle fiamme che attoniti abbiamo guardato sugli schermi televisivi, non finiranno mai di bruciare, neppure quando sarà ricostruito ciò che è andato irrimediabilmente perduto. E bruceranno i ricordi e le memorie e le preghiere e gli incanti di tutti coloro che hanno avuto la fortuna, almeno una volta nella vita, di solcare la navata centrale, di soffermarsi nelle cappelle laterali della cattedrale, di ammirare la sontuosa maestà dell’architettura gotica e di estasiarsi davanti alle grandi vetrate che nel 1540 illuminarono la mente e l’anima di Torquato Tasso uscito dal tempio come trasformato. Tuttavia i simboli unificanti non muoiono nelle coscienze dei popoli, di tutti i popoli a prescindere dalle latitudini, quando si ha la consapevolezza che quanto è stato distrutto rappresenta una parte del patrimonio della sola razza universale, quella umana. E quel luogo, la Notre- Dame delle nostre piccole o grandi estasi, delle emozioni che in chiunque ha suscitato, vivrà non soltanto per francesi, ma nell’anima di tutti coloro che ad essa hanno guardato nei modi e con gli intendimenti più vari soggiogati dalla sua bellezza e dalla esemplificazione di una maestosa orazione in pietra e legno e piombo: i materiali dei quali lo spirito di serve per esaltare il richiamo dell’Inconoscibile.
Lo sfregio che il Destino ha voluto si compisse dopo mille anni dalla sua edificazione resterà come monito della caducità di tutto ciò che umano e a maggior gloria di ciò che sopravvive, sia pure impalpabilmente, nella dimensione dell’eternità. Notre- Dame esprimeva ed esprime, con quel che resta di essa, questa specifica funzione, al di là di ciò che è andato perduto per sempre e che sarà vivificato comunque dalla nostalgia, sentimento del ritorno più che del distacco.
Un luogo dello spirito. Sacro per chi crede, esempio di bellezza purissima per chi non ha il dono della fede, ma sa riconoscere i segni dell’immanenza in un’opera d’arte che è anche - soprattutto, direi - un’opera religiosa, disegnata e realizzata da mani umili non congiunte in preghiera, ma nella realizzazione anch’essa metafisica, potremmo dire con Charles Péguy, del compimento di un rito lungo secoli, il tempo della costruzione del tempio cristiano sulle rovine di un antico tempio pagano.
Anche per questo Notre- Dame, ha costituito un riferimento universale nel corso della sua lunga e travagliata storia.
Nell'area che venne scelta per costruire la cattedrale, sorgeva un tempio pagano dedicato a Giove per rendergli grazie dopo la vittoria di Cesare su Vercingetorige nel 52 a. C.: fu una specie di riconsacrazione di Lutezia, sottratta ai barbari nemici di Roma. E quando l’antica capitale gallica venne cristianizzata si pensò che la continuità sacrale imponeva che il nuovo luogo di culto si dovesse erigere sulle rovine del vecchio, come è stato in tante terre del mondo antico quando si riconosceva, a prescindere, dalle credenze, l’unità trascendentale delle religioni, come avrebbe definito quella nobile attitudine Fritijof Schuon. E Notre- Dame, anche per questo, venne riconosciuta, ben più delle altre chiese che la precedettero quali luoghi del cristianesimo primitivo, come lo “spazio” nel quale il legame tra la persona e Dio si concretizzava in un rapporto intenso ed esclusivo, al di là delle corruzioni del potere e delle ambizioni di chi utilizzava la religione come strumento di dominio.
Notre- Dame, non meno della splendida cattedrale di Strasburgo e di quella di Reims, ha forse espresso al meglio la visione medievale, inveratasi fin nel cuore della modernità, dell’elevazione, al punto che un laico tutt’altro che credente come Victor Hugo nel 1831 le dedicò uno dei suoi libri migliori, ricco di suggestioni, affascinante e seducente perfino il lettore più ostile a comprendere il sentimento di pietà suscitato dalla devastazione di un edificio consacrato: Notre- Dame de Paris, venne scritto come atto di riparazione e di sensibilizzazione affinché si procedesse alla restaurazione della cattedrale, sottraendola all’incuria, dopo le devastazioni che su di essa si esercitarono durante la Rivoluzione francese. Hugo scriveva: ' Senza dubbio è ancora oggi un maestoso e sublime edificio... così bello che è stato preservato con il passare degli anni, difficile non sospirare, non essere indignato per degradazioni, mutilazioni che il tempo e gli uomini hanno simultaneamente fatto al venerabile monumento, senza rispetto per Carlo Magno che aveva posato la prima pietra e per Filippo Augusto che aveva posato l'ultima'.
Lo scrittore eccedeva nel romanzare la storia della cattedrale. In realtà la prima pietra venne posta e benedetta da Papa Alessandro III nel 1163, regnante Luigi VII il Giovane e la costruzione, in una prima fase durò poco meno di cento anni, fino al 1250 quando venne completato l’edificio vero e proprio, mentre in un secondo tempo, molto indefinito, vennero aggiunti gli abbellimenti e furono operati interventi strutturali sia per rafforzarne le mura che per alloggiarvi cappelle e monumenti come quello del re Luigi XIII. Tuttavia l’intervento di Hugo, suscitò un interesse che se non si era spento nei parigini, certo si era affievolito, dopo la profanazione avvenuta nel decennio più feroce del terrore giacobino, dal 1789 al 1799. La cattedrale venne devastata; gli oggetti preziosi vennero per fusi, ma qualcuno si appropriò di tanti al- tri; le statue della facciata, sia quelle della galleria dei Re, sia quelle dei portali, vennero distrutte e così anche la flèche, la “freccia” per i francesi, vale a dire la guglia che abbiamo visto cadere tra le fiamme, venne parzialmente abbattuta. Il 10 novembre 1793 - una data che i francesi non avrebbero mai dovuto dimenticare - nel corso di una celebrazione blasfema in adorazione della libertà, la cattedrale di Notre- Dame venne “consacrata” dai rivoluzionari, capeggiati da Pierre- Gaspard Chaumette, Tempio della Dea Ragione. Una blasfemia che nel corso del tempo non è mai stata abbastanza condannata. Ed i francesi ne furono vittime inconsapevoli quando non impotenti; i francesi delle regioni profonde, delle campagne che davanti soldati al regno, preti alla chiesa...
Immaginiamo i bivacchi giacobini, le orge parolaie dei seguaci di Danton, Marat e Robespierre, le tricoteuses ridanciane disfare manufatti benedetti intorno ai quali si erano raccolti per secoli popolani ed aristocratici per impetrare la benedizione divina prima di guerre sanguinose o dopo tragedie personali. Una storia crudele che nella vicina chiesa, adiacente al piccolo museo Cluny, di fronte alla Sorbona, dove sorgevano le antiche terme “romane”, ebbe l’esito più efferato di crudeltà esercitata sui morti: la profanazione della tomba del cardinale Richelieu e la dispersione delle sue ossa. La Grande Rivoluzione aveva avuto ragione del nemico della Ragione. Notre- Dame, ancor prima che Hugo lanciasse il suo allarme, condiviso da buona parte dell’intellettualità parigina, venne riconosciuta per quella che era. Dopo il Concordato tra lo Stato francese e la Chiesa, firmato il 15 luglio 1801 da Napoleone Bonaparte e da Pio VII la cattedrale riprese la sua funzione e dopo un restauro piuttosto abborracciato e frettoloso, vi venne celebrata la prima messa dopo circa quindici a anni, il 18 aprile 1802 alla presenza di Napoleone e del legato pontificio Giovanbattista Caprara di Montecuccoli.
Fu il preludio della fastosa incoronazione dell’imperatore avvenuta il 2 dicembre 1804 al termine di una messa votiva dedicata alla Vergine Maria, Notre- Dame appunto, celebrata da Pio VII. L’imperatore dei francesi, con le spalle al Pontefice, prima pose sul suo capo la corona e poi fece lo stesso ponendola sul capo dell’imperatrice Giuseppina. Sotto le volte della cattedrale si levavano possenti e mistiche, secondo le descrizioni dell’evento, le note del Te Deum di Giovanni Paisiello, il grande compositore napoletano. La scena solenne venne raffigurata da Jacques Louis- David in due dipinti meravigliosi, oggi uno al Louvre e l’altro a Versailles, che rappresentano meglio di qualsivoglia trattato politico il rapporto complesso tra potere spirituale e quello temporale. E dove se non a Notre- Dame, poteva essere celebrata la riconciliazione e la separazione al tempo stesso che avrebbe sancito l’ingresso della storia europea nella modernità?
I rifacimenti post- rivoluzionari avevano salvato quasi tutta la struttura della cattedrale, molti manufatti trovarono ricetto nel citato museo Cluny dove - sia detto per inciso - pochi sanno che vi campeggia l’unica statua esistente dell’Imperatore Giuliano, impropriamente detto “l’apostata”, curiosamente affiancato dai simboli cristiani, lui che regnò solo diciotto mesi e venne elevato alla carica imperiale sugli scudi dalle legioni di Lutezia che comandava.
Il tetto della cattedrale, fino all’altra sera, era ancora quello originale, che sostituì la copertura provvisoria con l’installazione delle tegole di piombo per un peso totale di 210.000 chilogrammi, mentre il telaio di sostegno della copertura era in quercia. Tutto in fumo. Come la flèche di Eugène Viollet- le- Duc che non rivedremo mai più. E ci mancherà cercandola con gli occhi certamente smarriti venendo dalla rive droite, dal Marais, da rue de Rivoli, come il segno della prima tappa del nostro itinerario quotidiano, da flaneur alla ricerca di un orientamento che finisce quasi sempre lì, a Notre- Dame, prima di inoltrarci nel Quartiere Latino.
Quella guglia ci mancherà. E mancherà ai parigini che dal 1860 hanno preso ad amarla come una presenza imprescindibile del loro paesaggio domestico, come le statue che la circondavano. Quarantacinque metri di assenza che non si staglieranno più nel cielo di Parigi e tra il Pantheon ed il Pére Lachaise perfino i grandi morti di Francia abbiamo l’impressione che si siano destati dal loro sonno nel momento in cui la flèche si è inabissata tra le fiamme, cadendo su stessa, diventando cenere.
La storia è una sequenza incessante di edificazioni e di distruzioni. Ma vi sono catastrofi spirituali che sopravanzano quelle materiali e quando queste si uniscono alle altre non vi sono parole per descrivere il vuoto che si avverte. L’anima europea è rimasta scossa nella serata di lunedì 15 aprile. E’ come se si fosse aperto un baratro nella nostra identità e noi fossimo atterriti davanti al naufragio di fiamme davanti al quale la statua illesa di Carlo Magno sulla piazza antistante la cattedrale ci è parsa quasi come un aspetto di uno spettacolo di grandezza crudele: il primo imperatore difronte al prodotto più maturo e solenne e fastoso elevato a Dio dai suoi successori caduto nel tempo in cui le credenze si sono affievolite ed incoronazioni e funerali non se ne celebrano più da quelle parti. Ci intriga l’idea che perfino dalle parti di Achen una tomba si sia scossa... Certamente la catastrofe ha scosso il mondo. Per il semplice fatto che i simboli non possono o non dovrebbero morire e la Bellezza non dovrebbe conoscere affronti. Già, la Bellezza. Un pensiero a Feodor Dostoevskij. Il Destino uccide la bellezza che dovrebbe salvare il mondo, illudendoci insieme con il grande scrittore. Ma la bellezza è fragile, per definizione. E al destino non possiamo che opporre la nostra debolezza, ma anche la memoria che niente e nessuno ci può sottrarre: è la sola forza che ci rimane.
Cammineremo ancora intorno a Notre- Dame e sfioreremo le sue mura e accarezzeremo ciò che resta della sua storia un po’ anche nostra. E l’ameremo più di quanto l’abbiamo amata inoltrandoci nel suo vivo medio evo che ci racconta di un’Europa eterna fatta di santi e di peccatori sfilati sotto le volte a crociera di un tempio cristiano.