«Vorrei iniziare con un applauso e un pensiero importante rivolto a un avvocato che in questi giorni è stato vittima di aggressioni verbali, proprio nella terra in cui ho esercitato per 40 anni la funzione di magistrato». Carlo Nordio, ministro della Giustizia, non fa in tempo a finire la frase: è sommerso di applausi, seppur a distanza.

«È un privilegio essere assieme a voi, seppur mitigato dall’impossibilità della presenza fisica», esordisce, dal grande schermo che campeggia, in una spettacolare scenografia, sul palco dell’auditorium. Parla da remoto, ma mai come nella cerimonia organizzata dal Cnf a Roma per i 150 anni degli Ordini forensi, il guardasigilli annulla, con il suo intervento, le distanze. Perché il suo è un discorso che tocca il cuore, dei 700 avvocati presenti nell’Auditorium della tecnica come della questione che da più di trent’anni inquina la giustizia italiana: il disconoscimento del diritto di difesa, la concezione del processo come celebrazione di una colpevolezza già accertata con le sole indagini.

Nordio si schiera senza equivoci contro il disprezzo per i diritti degli imputati che, a maggior ragione se rei confessi, non meriterebbero la tutela in giudizio. Il guardasigilli ribalta questo schema incivile, barbaro, medievale, con il riferimento, evidente, a Giovanni Caruso, avvocato dell’assassino di Giulia Cecchettin, Filippo Turetta. Neppure chi è responsabile del più odioso e spregevole dei crimini può essere assoggettato alla legge del taglione.
Nel suo discorso, restituito dal collegamento in streaming, Nordio non segue protocolli ma appassiona a partire dalla citazione di Malesherbes, l’avvocato di re Luigi XVI il quale, prima di assumere la difesa del monarca travolto dalla Révolution, gli fa presente che avrebbe pagato l’arringa con la vita, per poi onorare lo stesso la toga e finire gigliottinato pure lui.

Ma soprattutto il ministro trasmette un senso di inquietudine e ribellione morale al tempo stesso quando prosegue con Fulvio Croce: «Molti di voi erano troppo giovani, tanti non erano neppure nati, ma il sacrificio di Croce è il culmine di una storia drammatica e gloriosa. Io stesso avevo indagato sulla colonna veneta delle Brigate rosse: da imputati, quei terroristi rifiutavano la difesa. Era una forma di disprezzo per l’avvocatura e per lo Stato. L’avvocato Croce fu, di quel rifiuto, una delle vittime più significative. Addolora constatare che cinquant’anni dopo un avvocato sia ancora oggetto di minacce, che spero rimangano tali».

Altro applauso, sentito, anche commosso, dei rappresentanti di Ordini e associazioni forensi, che hanno appena finito di ascoltare l’orgogliosa apertura del presidente Cnf Francesco Greco e l’apprezzato intervento del vicepresidente della Consulta Giulio Prosperetti. Nordio conquista la platea anche perché risponde ai proiettili recapitati al difensore di Turetta con l’impegno sull’avvocato in Costituzione. Parte da una premessa, questa sì entrata da tempo nel suo sistema ideale: la condivisione, da parte dell’avvocato della «cultura della giurisdizione: dissento dall’idea che quella cultura appartenga solo a giudici e pm, tesi che spesso si oppone alla separazione delle carriere».

Il guardasigilli fa notare che l’avvocato e il pubblico ministero «devono avere uguale importanza». Quindi non si trattiene dall’autoaccusarsi: «Purtroppo, con mio grande rammarico, non siamo riusciti a realizzare il progetto di inserire l’avvocato in Costituzione nella riforma sulla separazione delle carriere. Ci sono state varie ragioni che non sto qui a elencare», è l’elegante chiosa con cui Nordio sorvola sul timore che quel pur incontestabile riconoscimento potesse esasperare il dissenso dei magistrati nei confronti della riforma. E subito aggiunge: «È una mancanza a cui cercheremo di porre rimedio il prima possibile».
Al di là di quanto sia realizzabile la certamente sincera promessa di Nordio, è importante che il ministro metta in relazione il richiamo esplicito dell’avvocato nella Carta con le minacce subite, appunto, da difensori come Caruso, perché conferma così l’opportunità di quel riconoscimento come antidoto alla mortificazione populista della figura dell’avvocato. La cultura alimentata dagli opinion maker e dai giornali giustizialisti seduce e avvelena gran parte dell’opinione pubblica, e un gesto controcorrente del legislatore contribuirebbe a combatterla.
Ci sono altri due passaggi in cui Nordio strappa l’ovazione della platea. Innanzitutto quando completa il discorso partito dalla solidarietà all’avvocato Caruso con il richiamo alle dittature, perché «in esse soltanto gli avvocati sono stati costretti a chiedere ai loro assistiti di pentirsi, come dopo la rivoluzione d’ottobre, o addirittura a invocare la condanna, come avvenuto sotto il nazismo».

Ecco, i giustizialisti di oggi, in Italia, devono specchiarsi in questo: nello stalinismo e nella barbarie hitleriana. E poi c’è ancora un passaggio dedicato a quelle indagini in cui a essere accusato è un politico, un imprenditore, e cioè chi non ha precedenti penali: «Quando si presenta all’interrogatorio è reduce da molte notti insonni, è in una condizione di assoluta angoscia, e anche se il magistrato, come facevo io, cerca nei limiti del possibile di metterlo a proprio agio, e gli ricorda che nel nostro Paese vige la presunzione d’innocenza, è solo all’avvocato che, in quel momento, l’indagato guarda come a un’ancora di salvezza. In quel momento l’unico sostegno siete voi». Altri applausi, altra ovazione. Nordio ha conquistato la platea dei 150 anni degli Ordini. Il difficile sarà battersi perché la promessa si realizzi davvero.