Ci sono guardasigilli che passano, e lasciano un segno più o meno visibile. Ma di Carlo Nordio non si potrà certo dire che scivolerà via in dissolvenza. È un ministro della Giustizia che per linguaggio, acume, originalità, si distingue dagli altri. È l’impressione che si ricava dal suo intervento di stamattina a SkyTg24. E al di là dello stile, lo scambio con la giornalista della tv di Murdoch ha offerto molti spunti. Prima di tutto un approccio non banale su delitti orribili e «insondabili» come la strage di familiari compiuta da un 17enne a Paderno Dugnano: Nordio ha avvertito che quando si tratta di atti ascrivibili ai «recessi più inesplorati della mente umana» è inutile illudersi di poterli prevenire. Ma soprattutto da liberale, da conservatore liberale, il ministro ha preventivamente sconfessato chiunque volesse provare a leggere l’assassinio di Sharon Verzeni alla luce della provenienza straniera del femminicida: «Le origini italiane o non italiane hanno poco a che fare con il senso che si cerca di dare a delitti simili».

Invece non ha regalato sorprese, il ministro, sul carcere. Ha ribadito che il sovraffollamento si è sedimentato in un’indifferenza protrattasi per decenni, e che insomma risolverlo d’un colpo è impossibile. Ha continuato a giustapporre da una parte misure che definisce «di liberazione generalizzata» e dall’altra le soluzioni complicate e impervie che da mesi, da ben prima che arrivasse l’ultimo decreto, l’Esecutivo propone, a cominciare dalla “delocalizzazione” dei condannati di origine straniera, che dovrebbero «tornare nel loro Paese a scontare la pena». E ha esibito l’abilità di un’elegante mezzala nel dribbling con cui ha eluso, nella sostanza, la giornalista di Sky, che aveva fatto esplicito riferimento alla legge Giachetti e alla valenza di quella proposta quale sollievo immediato, anziché futuribile, al dramma del sovraffollamento e dei suicidi: ha detto che misure simili sono affidate all’iter legislativo tipico dei disegni di legge e che dunque non costituirebbero una risposta tempestiva, tanto più che la liberazione è pur sempre di competenza del giudice di sorveglianza, le cui decisioni non sono compulsabili, certo, né condizionabili. Ha trascurato di ricordare che in realtà una mera estensione della liberazione anticipata già vigente da un paio di lustri poteva tranquillamente trovar posto nel decreto convertito il 7 agosto. E che se non si è trovato posto a quella misura, che sarebbe invece di immediata efficacia, è stato per scelta politica.

Ma in fondo destreggiarsi con abilità, eleganza o anche astuzia nella selva dei diversi orientamenti espressi dai partiti del centrodestra è una cifra di Nordio. La conosciamo, e in ogni caso si parla di una linea politica che non si può ascrivere a lui come ministro. Al più va contestata a chi il governo di cui il ministro fa parte lo guida, cioè a Giorgia Meloni. Nordio è un ex magistrato. Ma mostra anche di avere un naturale talento per la politica – sebbene si confermi poco attratto dal chiacchiericcio gossipparo (il dribbling più secco lo regala sul caso Boccia-Sangiuliano) – quando si inoltra nello scontro fra magistratura ed Esecutivo, proposto giustamente dall’intervistatrice di Sky. Ricorda che il «dialogo» c’è e continuerà a esserci, ma anche che «la separazione delle carriere, la ristrutturazione dei due Csm, l’autonomia e l’indipendenza sulle quali entrambi i Csm dovranno vigilare, fanno parte del programma di governo e non sono negoziabili. Sarebbero al limite negoziabili dagli elettori se ci mandassero a casa», ha chiosato il ministro.

Ecco, questo sì che è parlare da prima linea di un governo con un linguaggio pienamente politico, e non solo con il tono del raffinato giurista. Tanto più che Nordio, sempre in zona Cesarini, sfodera il passaggio più interessante e originale del suo discorso. Sul probabile referendum a cui la separazione delle carriere, una volta approvata, sarebbe sottoposta, non esita a dirsi desideroso che la riforma sia portata alla diretta valutazione degli elettori: «È difficile che la si possa votare in Parlamento con una maggioranza qualificata, ma non avrei affatto paura del referendum, anzi vorrei andarci quanto prima, perché mi piacerebbe che i cittadini si esprimessero su un tema così importante».

Ecco sì: è un versante finora poco esplorato della questione. Un grande dibattito pubblico e una grande consultazione popolare, non solo e non tanto sulla riforma, sul “divorzio” fra giudici e pm, ma sulla magistratura, sul suo rapporto con la politica: questo sarebbe un referendum sulla separazione delle carriere. Una resa dei conti a più di trent’anni da Mani pulite. Un disvelamento sul quale sia, oggi, il grado di onnipotenza e deificazione dei pm nella percezione dei cittadini. Sì, è come dice Nordio. Meglio arrivarci, al referendum. Meglio farci i conti, con l’opinione reale degli italiani. Meglio che l’intero centrodestra non giochi più attorno al ddl costituzionale sulla giustizia come con una bandiera dell’uno o dell’altro leader. Che si battano, seriamente, per dire che si tratta di una svolta verso un nuovo assetto e un diverso futuro per i poteri. Con una magistratura non più saldata in un unico, abnorme ordine che aspira a scavalcare gli altri, cioè la politica. Vediamo di cosa sarà capace il centrodestra, nel battersi per affermare un simile messaggio, e vediamo quale sarà il risultato delle urne. Dopo decenni di soggezione allo strapotere delle Procure, un sì alla riforma sarebbe una sorta di contro-vaffa. Sarebbe il ritorno della politica che riconquista il ruolo di espressione della sovranità popolare. Nordio ci ha visto lungo. E conferma di avere, oltre a un eccesso di astuzia nel dribbling, qualità da vero intellettuale della politica.