Perfino uno degli avvocati che un tempo rappresentavano un familiare delle vittime si è ricreduto, dicendosi certo che Fausta Bonino non possa essere l’assassina di quattro pazienti del reparto di Terapia Intensiva dell’ospedale di Villamarina, morti nel 2015. Dopo una condanna all’ergastolo, un’assoluzione e appello bis disposto dalla Cassazione che l’ha ritenuta colpevole, l’ex infermiera, bollata dai giornali come “killer” ancor prima del processo, rischia oggi di vivere il suo ultimo giorno di libertà. Questa mattina, infatti, il suo avvocato Vinicio Nardo proverà a ribaltare di nuovo la sua condanna in Cassazione. Se l’esito fosse negativo, si aprirebbero per lei le porte del carcere. A vita.

Il caso è di natura «indiziaria», come scrivono gli stessi giudici della Corte d’Assise di Firenze. Prove certe non ce ne sono, ma elementi di un puzzle che, messi insieme, sembrano condurre a Bonino. Ma nemmeno troppo, dati i dubbi che questa condanna suscita. E se i primi giudici di appello avevano deciso di assolverla, concordando sul fatto che gli elementi a disposizione rappresentavano un teorema «destituito di fondamento», quelli che l’hanno giudicata colpevole hanno ritenuto quegli elementi dimostrativi della sua colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. «Io sono innocente», ribadisce l’ex infermiera al Dubbio. «Invece di cercare il colpevole, hanno cercato un capro espiatorio - aggiunge -. Si tratta di una condanna ingiusta. E soprattutto c’è un assassino ancora in libertà che nessuno sta cercando. Se confermeranno questa sentenza non sarò l’unica a non avere giustizia: ne saranno privati anche i parenti delle vittime».

Il ricorso dell’avvocato Nardo mette in fila i presunti vizi di motivazione, a partire dalla modalità di somministrazione dell’eparina, il farmaco che ha ucciso i pazienti. Secondo i giudici d’appello, l’unica modalità possibile sarebbe quella dell’iniezione endovenosa in bolo, escludendo altre opzioni, come la somministrazione tramite flebo. Ciò, però, senza nemmeno conoscere la quantità di farmaco effettivamente somministrata. Un fatto non secondario: i periti hanno infatti ammesso che i “picchi” di eparinemia dipendono dalla quantità di farmaco somministrato e non solo dalla modalità di somministrazione.

La difesa ha dimostrato che una somministrazione per infusione con quantità elevate avrebbe potuto determinare gli stessi picchi di eparinemia. La Corte d’Assise d’Appello, però, ha escluso «in modo apodittico» la somministrazione diluita. Ciò nonostante un fatto: se in un primo momento i periti hanno dichiarato che l’eparina non poteva essere miscelata con l’Emagel, in seguito hanno ammesso che non esistono prove scientifiche che dimostrino questa incompatibilità. Nonostante ciò, la Corte ha citato solo la prima parte delle loro dichiarazioni, ignorando la seconda parte.

Non esiste quindi una prova certa che Bonino abbia somministrato l’eparina, né quanta, né come. La Corte, secondo la difesa, avrebbe infatti dedotto un fatto ignoto (la modalità di somministrazione) da un altro fatto ignoto (la quantità somministrata), violando così i principi stabiliti dall’articolo 192 del codice di procedura penale, secondo cui gli indizi devono essere gravi, precisi e concordanti. Nel merito, almeno in tre dei quattro decessi sembra altamente improbabile che Bonino abbia avuto l’opportunità di somministrare l’eparina. Mario Coppola, ad esempio, arrivò in terapia intensiva alle 20.10 con insufficienza respiratoria. Gli esami che evidenziarono gli effetti dell’eparina furono disponibili alle 20.20. Bonino avrebbe avuto solo 5 minuti per preparare la siringa, avvicinarsi al paziente in gravi condizioni, circondato da altri medici e infermieri, e somministrare l’eparina senza essere vista.

La somministrazione sarebbe dunque potuta avvenire prima del trasferimento in terapia intensiva, quando al paziente venne prescritta una flebo. Angelo Ceccanti, invece, ricoverato per un intervento chirurgico alla gola, dopo l’operazione fu portato in terapia intensiva e successivamente riportato in sala operatoria a causa di un sanguinamento continuo. Secondo i giudici, gli fu somministrata l’eparina durante il soggiorno in terapia intensiva. Tuttavia, la cartella clinica mostrava modifiche a mano degli orari, che potrebbero aver indotto i giudici in errore.

Secondo gli originali, l’infermiere notò il sanguinamento alle 15 e ordinò esami, i cui risultati non evidenziavano tracce di eparina. Quando Ceccanti entrò in sala operatoria, il sanguinamento peggiorò gravemente, ma Bonino non era presente: l’eparina potrebbe essere stata dunque somministrata tramite una flebo utilizzata durante l’intervento. Infine, nel caso di Bruno Carletti, ricoverato per una rottura del femore, secondo i giudici Bonino avrebbe somministrato l’eparina dopo l’intervento chirurgico.

Tuttavia, il paziente fu assistito da sei sanitari, ma nessuno vide l’infermiera entrare nella stanza di degenza o avvicinarsi a lui. Eppure la donna è accusata esclusivamente sulla base di un’ipotesi, quella secondo cui sarebbe l’unica sempre presente durante i decessi sospetti, in un reparto che, secondo i giudici, sarebbe stato “blindato”. Ciò nonostante l’esistenza di altri ingressi accessibili con facilità anche dagli estranei, come dimostrato nel corso del processo.

Perfino adesso, dopo quattro omicidi, come mostrato da un servizio delle Iene. Manca, inoltre, un movente: Bonino viene descritta come una persona instabile, psicologicamente fragile, con un passato segnato da disturbi come l’epilessia e la depressione, che gli inquirenti considerano compatibili con l’idea di una persona capace di commettere omicidi. Ciò senza spiegare come e perché dei farmaci potrebbero spingere una donna a uccidere i suoi pazienti.