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Piercamillo Davigo, ex pm di Milano
Da pubblico ministero, Piercamillo Davigo, come minimo avrebbe contestato due aggravanti a quel pensionato che, stimolato da uno sbalordito Fedez, disse che «se uno decide di suicidarsi lo perdi come possibile fonte di informazioni». La prima aggravante è quella della recidiva, la seconda è il reato associativo, perché nella freddezza di certe dichiarazioni l’ex pm non è solo, perché prima o poi quasi tutti gli uomini del pool di Milano che si fece chiamare Mani Pulite, hanno manifestato analogo cinismo. L’unica eccezione fu una donna, Tiziana Parenti, sempre rispettosa e professionale nei confronti delle persone indagate o arrestate. Infatti fu cacciata.
L’aggravante della recidiva è facile da contestare, perché l’uomo Davigo è faceto, e ama da sempre esibirsi in storielle e paradossi, in nessuno dei quali è mai ipotizzata la possibile non colpevolezza dell’indagato. Da quello sospettato di molestie cui è inopportuno affidare in custodia la bambina, fino a quello che viene visto con addosso oggetti di argenteria e quindi non gli si consegnano le chiavi di casa. E poi il racconto, che i suoi sostenitori trovano esilarante, ma che di questi tempi l’ex pm farebbe bene a non ripetere più, sul fatto che tutto sommato sia più conveniente, sul piano giudiziario, e nel calcolo delle conseguenze, uccidere la moglie piuttosto che avviare una pratica di divorzio.
La recidiva che il magistrato Davigo contesterebbe all’indagato Piercamillo è lunga e pesante. Si va dalla necessità di “rivoltare l’Italia come un calzino”, al testo, da lui vergato, con cui l’intero pool calcò a scena televisiva con occhiaie e barba lunga per protestare contro il “decreto Biondi” (e il Parlamento si arrese), fino a quando lui stesso teorizzò il proprio diritto all’obiezione di coscienza quando “vengono toccati i fondamenti etici del mio mestiere”. E la lamentazione perché, secondo lui, in Italia si scarcera troppo, dal momento che non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti. E che conviene liberare il signor A solo quando avrà denunciato B e C, perché chi fa i nomi di altri ”diventa inaffidabile per il sistema del malaffare”. Naturalmente tutto ciò non vale per lui, già condannato in primo grado e in attesa di appello ed eventuale cassazione. Innocente secondo l’articolo 27 della Costituzione. Come tutti gli altri, suicidi compresi. O no?
Ma Piercamillo Davigo è in buona compagnia, con i suoi colleghi che c’erano nel 1992 e 1993, alcuni dei quali non ci sono più. L’ aristocratico capo della procura di Milano Saverio Borrelli, prima di tutto. Colui che sconsigliò Silvio Berlusconi di candidarsi qualora avesse “scheletri nell’armadio” e poi offrì se stesso al presidente Scalfaro per governare l’Italia “come servizio di complemento”. Colui che all’inaugurazione dell’anno di giudiziario invitò il popolo delle toghe a “resistere resistere resistere” come sulla linea del Piave, ancora contro Berlusconi, colui del quale si trova oggi in compagnia al famedio del Cimitero monumentale di Milano, dove vengono sepolte le personalità che hanno fatto grande il Paese. E colui che infine chiuderà la propria carriera di magistrato chiedendo “scusa per il disastro seguito a Mani Pulite”, perché “non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. La confessione del ruolo politico della magistratura in quegli anni.
Poi c’è il suo vice Gerardo D’Ambrosio, quello che, dopo aver visto il viso rigato di lacrime del presidente della Camera dei deputati Giorgio Napolitano mentre leggeva la commovente lettera dell’esponente socialista Sergio Moroni, suicida per due informazioni di garanzia, disse gelidamente “Si può morire anche di vergogna”. E non si vergognò.
E che dire del tormentato Gherardo Colombo, oggi molto attivo con la sua particolare sensibilità sul carcere di cui ha finalmente compreso la violenza e la sostanziale inutilità, dopo aver contribuito a spedirvi parecchie persone in attesa di giudizio? Una revisione sulle tante violazioni commesse in quegli anni da parte sua non è mai arrivata, per esempio sulla predeterminazione del giudice naturale e sulla competenza territoriale. E quando gli si faceva notare l’uso smodato della custodia cautelare in carcere, rispondeva con sprezzo “ma che stiano un po’ in galera quelli lì”.
Quelli lì erano per esempio l’ex presidente dell’Iri Franco Nobili e l’ex ministro della giustizia Clelio Darida, che furono assolti dopo che la cassazione aveva riportato la competenza a Roma, dove l’inchiesta avrebbe dovuto essere radicata da subito, prima dello scippo dei pm milanesi del Pool. Continuando nell’elenco, il fatto più spiacevole di Francesco Greco, prima che diventasse procuratore capo e poi pensionato di un ufficio ormai in macerie per le inchieste di Brescia, fu quella relazione con cui mandò al Csm per un’ipotesi di incompatibilità ambientale il suo amico e compagno e maestro Francesco Ciccio Misiani, per la sua amicizia con il procuratore capo di Roma, Renato Squillante. Suo amico e compagno, ripetiamo. Uno che non ha retto al dolore, e che ora non c’è più.
Per questa volta, e solo per questo, lasciamo a lato dell’elenco Tonino Di Pietro, a causa di un’apparente diversa umanità che mostrò per i due suicidi, in sequenza tra il 20 e il 23 luglio 1993, di Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Due dei quarantuno che hanno segnato la stagione di Mani Pulite. E che non hanno potuto testimoniare e aiutare le indagini del dottor Davigo e gli altro del pool. Quarantuno “fonti” che si sono sottratte.