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IMAGOECONOMICA
Adesso ce l’hanno tutti con lui. Precipitato nella polvere peggio di Chiara Ferragni, Piercamillo Davigo è stato condannato anche in appello. Proprio lui che è stato sempre contrario ai tre gradi di giudizio, ora attenderà la Cassazione, assistito da un bravo avvocato come Davide Steccanella, abituato più ai “prigionieri politici” che non ai piercavilli.
La tentazione c’è, per chi conosce questo mondo della giustizia dove tutto pare più approssimativo che rigoroso e spesso anche vendicativo, a pensare quanto sia facile oggi stringere virtualmente le manette ai polsi di un ex potente, e a quanto sarebbe stato difficile se non impensabile farlo quando il dottor Davigo era il rispettato e temuto membro del pool Mani pulite di Milano. O quando era giudice di Cassazione. O capo del sindacato (Anm) delle toghe. O membro di quel Consiglio superiore della magistratura da cui non avrebbe voluto più staccarsi, tanto da correre e ricorrere in ogni ambito possibile pur di restare incollato lì anche da pensionato.
Certo, è un pensiero malizioso. Ma stiamo affogando nella melma dei dossier, delle spiate, degli scoop pelosi e pelosissimi. E della disinvoltura con cui divise e toghe hanno maneggiato la nostra vita, la nostra salute, i nostri risparmi, quasi le nostre lenzuola. Per quale motivo dovremmo essere sereni per una banale sentenza di condanna a un anno e tre mesi di carcere, che casca casualmente in questi stessi giorni, solo perché il condannato si chiama Piercamillo Davigo? Forse solo perché chi la fa l’aspetti, e tiè brutto sbirro beccati questa, e la nemesi storica colpisce sempre, e non esistono innocenti ma solo colpevoli che ce l’hanno fatta, e volevi rovesciare l’Italia come un calzino ed eccoti il calzettone?
Tutto ciò non dà nessuna soddisfazione, per noi cultori dello Stato di diritto, un po’ come gli applausi alle sentenze di ergastolo. Cui qualcuno di noi è contrario perché lo ritiene incostituzionale. E anche se il mostro di Londra ci ripugna, se dovesse esser giudicato in Italia vorremmo consentire anche a lui, come a tutti, una via d’uscita. Per questo vorremmo esser tranquillizzati sulla sorte del dottor Davigo. E non vorremmo essere influenzati, nel nostro giudizio sui suoi comportamenti (mai ci permetteremmo di giudicare la persona), in questa stravagante vicenda della loggia Ungheria, dal sospetto che si sia mosso soprattutto in odio al suo collega ex amico ed ex cofondatore di una corrente sindacale, Sebastiano Ardita. Ma non ci piacerebbe neanche sapere che dei giudici bresciani, di primo o secondo grado, abbiano pensato di dare una lezione a uno che li considera dei cretini. E che ha detto che non capiscono niente. Il che, se ci pensiamo bene, non è una stranezza, perché i piercavilli più e meno considerano cretini tutti gli altri.
Certo, lui ne ha combinate delle belle. Certo, avremmo preferito che, quando ha cominciato a volantinare a mezzo Csm e oltre, si fa per dire, con la chiavetta che conteneva le dichiarazioni dell’avvocato Pietro Amara, legale esterno dell’Eni, sulla loggia Ungheria, fosse mosso da motivi di alta giustizia. Il pm Paolo Storari, per dire, cioè colui che si era rivolto a Davigo in quanto membro del Csm, qualche buon motivo l’aveva. Un motivo di ribellione nei confronti dei suoi superiori, il procuratore capo Francesco Greco e l’aggiunta Laura Pedio, a suo parere inattivi su quelle dichiarazioni. In aggiunta, con un retropensiero. Che cioè volessero tenere sotto spirito un testimone prezioso per l’accusa nei confronti dei dirigenti Eni che erano in qui giorni processati dal Tribunale. Un teste-chiave la cui attendibilità non andava messa in discussione, cosa che sarebbe invece accaduta se la Procura avesse aperto un fascicolo e lo avessero indagato per calunnia.
Il dottor Davigo pareva invece mosso più da problemi personali. Ma non è detto che questo aspetto sia rilevante. Il punto giuridico è se lui tutta questa attività extralavorativa la potesse svolgere. Lui sostiene di sì, i giudici lo hanno ritenuto responsabile del reato di violazione del segreto d’ufficio. Ma c’è un problema di “andazzo”. E la domanda è questa: l’ex pm, quando agiva in questo modo disinvolto, per esempio quando faceva partecipe del segreto un parlamentare, il presidente della bicamerale antimafia Morra, lo faceva perché la sua supponenza giuridica lo ha sempre fatto sentire nel giusto? O invece perché il suo passato nella Procura di Mani Pulite lo aveva abituato a certe disinvolture, a un certo “andazzo”? O perché l’“andazzo” è generalizzato?
Quello che si sta rivelando in questi giorni su certi comportamenti all’interno di un luogo delicato come la Direzione nazionale Antimafia non è così lontano dalle vicende più piccole, fatte di beghe, ripicche, vendette e tanta disinvoltura sulle procedure, in cui è finito invischiato il dottor Davigo. Ecco perché ci piacerebbe essere tranquillizzati. E sapere che, se l’ex pm di Milano ha commesso dei reati, ha subito lo stesso trattamento che sarebbe stato destinato a qualunque altro cittadino.
Ma anche che, il famoso signor “chiunque” citato negli articoli del codice penale, da adesso, proprio da questo momento della vergogna, in cui tutti i giornalisti e tutti i magistrati e tutti i poliziotti coinvolti dovrebbero vergognarsi e voltare pagina, sarà trattato in un altro modo. E avrà giustizia. E ci sarà sempre “un giudice a Berlino”. E a Brescia. E in Cassazione.