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Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con Pietro Curzio, primo presidente di Cassazione, Luigi Salvato, procuratore Generale di Cassazione, Carlo Nordio, ministro della giustizia
In scena oggi, come ogni anno, l’inaugurazione dell’anno giudiziario: la prima del ministro Nordio e pure del nuovo Consiglio superiore della magistratura post scandalo Palamara, rappresentato dal neo eletto vice presidente, avvocato Fabio Pinelli. Assente la premier Giorgia Meloni che ha mandato il sottosegretario Alfredo Mantovano; così pure il presidente del Senato La Russa impegnato in Aula con la Giornata della memoria, e sostituito dalla vice presidente dem Anna Rossomando. In prima fila il Capo dello Stato e vertice del Csm Sergio Mattarella.
La relazione di Curzio
Tra i concetti più importanti espressi dal primo presidente di Cassazione Pietro Curzio c’è sicuramente il seguente: «Come si è autorevolmente sostenuto in sede dottrinale, e di recente anche in sede istituzionale, l’area dei reati dovrebbe essere concentrata su ciò che effettivamente richiede l’intervento della sanzione penale, evitando proliferazioni delle fattispecie, spesso affidate a definizioni vaghe. Ciò a fini di garanzia dei cittadini, ma anche per una maggiore efficacia dell’intervento repressivo laddove necessario, evitando dispersioni di impegno e risorse». Dunque muoversi verso un diritto penale minimo per non soffocare la macchina giudiziaria, promuovere tassatività e determinatezza dei reati in molti settori, depenalizzare. Curzio stigmatizza il fatto che «oggi la legge è molto di più, si è decodificata, è dispersa in un mare di normative speciali, disordinate, alluvionali, spesso collocate in provvedimenti che contengono previsioni sui temi più disparati. L’ordinamento giuridico ha assunto in molti tratti le sembianze di un labirinto. La tecnica legislativa ha subito un’involuzione, il ritmo legislativo è divenuto incalzante, spesso spaesante». Nel nostro Paese infatti siamo abituati a dar vita ad una nuova legge per ogni vera o presunta emergenza: vedasi il falso problema dei rave party. Per il magistrato i problemi, «che segnano profondamente la nostra società, solo in parte possono essere affrontati con una risposta di carattere penale. Necessitano di interventi di più ampio respiro. Persino la criminalità mafiosa non può essere contrastata solo su questo piano, perché si rafforza quando e dove le istituzioni non svolgono il loro ruolo di tutela dei diritti e di mediazione e regolazione dei conflitti, lasciando spazio alla “supplenza criminale”». Dunque meglio prevenire che mettere in campo un diritto penale del nemico.
I dati
Secondo Curzio, «si assiste ad un lento ma progressivo miglioramento della situazione. Continua il processo di riduzione del contenzioso, tanto civile che penale. Il numero dei processi civili pendenti al 30 giugno 2022 è di 2.881.886 unità, con una decrescita del 7,2% rispetto al 2021. Quello dei processi penali è di 2.405.275 unità, in questo caso la decrescita è del 4,5%».
Conseguenze delle riforme
Con riguardo all’istituto della improcedibilità, «non vengono segnalate significative applicazioni processuali, ma alcune Corti di appello valutano con preoccupazione le ricadute sulla complessiva organizzazione dei ruoli. Viene segnalato che l’istituto in parola ha di fatto determinato l’introduzione di un’ipotesi di priorità processuale di trattazione, che va ad aggiungersi a quelle preesistenti attinenti al merito e alle relative tipologie dei reati». Ciò «determina la necessità di una revisione del sistema tabellare delle priorità, affinché vengano soddisfatte contemporaneamente le esigenze di limitare i casi di prescrizione dei reati commessi prima del 1° gennaio 2020; di evitare che abbia luogo l’improcedibilità delle azioni penali promosse in relazione ai reati commessi da tale data; di ridurre il disposition time del 25% entro il 30.6.2026». Infine, per quanto concerne la modifica che ha escluso la possibilità di accedere al rito abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo, essa ha determinato la diminuzione delle risorse umane disponibili per lo smaltimento del «pesante carico di lavoro» dei Tribunali, «almeno in quelle sedi in cui i magistrati siano chiamati sistematicamente a svolgere anche il ruolo di componenti togati delle Corti di assise ivi operanti».
La relazione di Salvato
Su una simile, in parte, scia culturale si è mosso il procuratore generale di Cassazione Luigi Salvato: «Volgendo l’attenzione al diritto penale, va ribadito che è questo il luogo eccezionale della violazione di un precetto tipico, dovendo la relativa sanzione essere riservata ai casi di grave lesione di interessi costituzionalmente rilevanti. Compito della giustizia penale è giudicare fatti, non processare la storia». Tema questa affrontato ultimamente dalle pagine di questo giornale con gli interventi di firme importanti come Spangher, Fiandaca, Cisterna, Barbano, Roppo, criticando la funzione del processo come strumento di lotta. Salvato ha poi ricordato che «il pubblico ministero costituisce un “organo di giustizia” che nella dialettica del processo riveste il ruolo formale di parte, ma con il compito di cooperare con il giudice in vista dell’attuazione del diritto, a garanzia dei valori di legalità. Tanto dà ragione della sua collocazione ordinamentale, perché deve alimentarsi della cultura della giurisdizione, che vuol dire altresì saper misurare l’esito dell’azione penale, come rimarcato dalla recente riforma». Dunque il pm, anche alla luce della recente riforma Cartabia, deve sempre più porsi nell’ottica di esercitare l’azione penale e chiedere un giudizio solo laddove ci sia una ragionevole previsione di condanna, deve appropriarsi pertanto della cultura del giudice e badare all’esito sotto il profilo della prognosi, non incaponirsi in inchieste che porteranno ad un nulla di fatto, ingolfando solo gli uffici giudiziari e rovinando le vite degli innocenti.
Il procuratore generale poi attacca anche il ruolo dell’avvocato, quale difensore dei mafiosi. Parlando infatti di Cosa nostra agrigentina scrive: «La strumentalizzazione delle prerogative connesse alla professione di avvocato ha consentito di creare un canale di comunicazione con esponenti apicali di Cosa nostra dei territori di Agrigento, Trapani e Caltanissetta, sottoposti allo speciale regime detentivo di cui all’art. 41-bis ord. pen., così consentendo loro, dopo anni di isolamento, di ricevere e inviare messaggi da e verso i sodali in libertà». Una espressione alquanto grave: c’è da chiedersi se ci siano sentenze definitive nei confronti di questi avvocati, presunti fiancheggiatori, quante siano. E se questa generalizzazione giovi al dialogo tra gli attori della giustizia.