L’errore è chiamarlo errore giudiziario, perché errore non è. E qui di seguito cercheremo di spiegarne la ragione. L’errore è qualcosa che deflette dalla norma, ha una dimensione quantitativa residua rispetto alla totalità dei casi. Anche a volerlo confinare entro il perimetro dell’ingiusta detenzione – e cioè trentamila casi negli ultimi trent’anni, mille all’anno, per una spesa complessiva di un miliardo di euro in risarcimenti pagati dallo Stato – un fenomeno di questa entità non si può definire eccezionale e residuale. Senonché i

mille errori giudiziari certificati all’anno sono solo la punta dell’iceberg, in un Paese dove il 40 per cento degli imputati viene assolto dal giudice di primo grado dopo un calvario giudiziario mediamente superiore ai quattro anni, fatto di indagini, intercettazioni, interrogatori, interdizioni e arresti.

Ciascuna di queste attività investigative è produttiva di un danno alla libertà, alla reputazione, alla morale, e alla salute. Ma nella stragrande maggioranza dei casi non è deliberato alcun risarcimento, e non lecito parlare di errore, perché il processo continua a essere considerato non un’estrema ratio, ma il modo più attendibile per accertare la verità.

Un secondo motivo per non utilizzare il paradigma dell’errore è che l’errore comporta l’accertamento di una responsabilità. Per dirla con un’espressione di senso comune, l’errore si paga. Qui non paga nessuno. Non hanno pagato i magistrati che perseguirono Enzo Tortora e ne ottennero una condanna a dieci anni di carcere in primo grado, salvo poi veder ribaltato il verdetto in appello. Tant’è vero che mai il caso Tortora è stato considerato dalla giustizia italiana un errore giudiziario, ma piuttosto l’esito di una normale dialettica processuale. Che non ha impedito ai pubblici ministeri che pervicacemente puntarono alla condanna di ascendere ai più alti o gradi della magistratura, senza alcuna macchia. Nessuno ha pagato e mai pagherà per Rocco Femia, ex sindaco di Marina di Gioiosa rimasto cinque anni in carcere per concorso esterno mafioso e poi assolto, per Marco Sorbara, consigliere regionale della Valle D’Aosta un anno in carcere e due ai domiciliari con la stessa accusa prima dell’assoluzione, per Carolina Girasole, sindaco di Isola di Capo Rizzuto arrestata, tre volte assolta e tuttavia portata in giudizio per sette anni da un pm che non si rassegnava al verdetto con cui le Corti valutavano come prove di innocenza i suoi indizi di colpevolezza.

Sulle retate - arresto cento e condanno dieci, cinque e talvolta nessuno - sono costruite le carriere di alcuni dei pubblici ministeri più influenti del Paese. Perché l’errore non si paga. E non parliamo ovviamente di una responsabilità penale, che, essendo garantisti, consideriamo inadeguata al caso, e neanche di una civile, che, nonostante le battaglie radicali, non è stata mai incardinata nel nostro Paese in maniera effettiva, e neanche di una disciplinare, che presupporrebbe un Csm indipendente e autorevole, non quello corporativo che abbiamo visto finora. Qui parliamo di una responsabilità professionale, connessa al merito nella conduzione dell’azione penale. Era stata introdotta dalla guardasigilli Marta Cartabia, con il fascicolo del magistrato e la valutazione statistica dell’esito dei provvedimenti, è stata smontata dal guardasigilli Carlo Nordio e sostituita con i test a campione e la burocrazia di valutazioni incrociate, in cui tutti alla fine approdano a un curriculum di eccellenza.

Tutto questo per dire che l’orrore della giustizia italiana, perché di questo si tratta, non è figlio dell’errore, ma piuttosto di una tragica ordinarietà. Che si esprime anzitutto in una specifica, diffusa, condivisa e impunita torsione delle regole, oppure in un altrettanto specifico, diffuso, condiviso e impunito abuso delle deroghe, di cui sono pieni i codici. Alcuni esempi possono aiutarci a comprendere. Le regole per un uso della custodia cautelare rigoroso, e limitato alla stretta necessità, ci sono eccome! E si chiamano pericolo di reiterazione del reato, pericolo di fuga e pericolo di inquinamento delle prove. La Cassazione le ha ulteriormente tipizzate, specificando che il pericolo deve essere concreto e attuale. Non si dovrebbe poter sostenere che c’è il pericolo che l’indagato ripeta il reato di corruzione per il solo fatto che continua a fare il sindaco, dovendosi provare invece che la sua condotta attuale continua a essere anomala e, per così dire, sintomatica di nuove azioni delittuose. Accade il contrario: il pericolo viene invocato per la mera persistenza della carica, con l’effetto che la custodia cautelare è diretta a interrompere l’attività amministrativa dell’indagato. Il caso dell’ex governatore della Liguria, Giovanni Toti, è solo l’esempio più famoso di questa tendenza.

Allo stesso modo la legislazione sulle intercettazioni è altrettanto rigorosa a parole, pretendendo che il ricorso a questo strumento così invasivo delle libertà individuali sia connesso all’esistenza di indizi gravi di reato e sia indispensabile all’accertamento degli stessi. Vuol dire che non basta una notizia criminis qualunque per disseminare i Trojan nei cellulari di indagati, familiari e collaboratori degli stessi, pescando a strascico tra di loro, ma occorre una ragionevole certezza di un reato specifico. Non solo. Occorre che tutti gli altri rimedi investigativi siano stati inutilmente percorsi prima di richiedere le intercettazioni. Accade anche qui il contrario. Alla prima lettera anonima, si attiva l’orecchio elettronico.

Un terzo esempio riguarda l’uso e l’abuso dei pentiti, le contrattazioni private che si aprono tra costoro e le procure in una zona grigia delle indagini. Le confessioni a comando, collegate a promesse di vantaggi penitenziari, continuano a essere causa di tanti «falsi positivi», cioè di tante accuse inventate di sana pianta che talvolta salgono attraverso il processo, salvo poi cadere in secondo o in terzo grado, quando il «falso positivo» ha già prodotto i suoi danni. Anche in questo caso la legge è stringente e impone che le confessioni avvengano in maniera spontanea ed entro i sei mesi dall’inizio della collaborazione con la giustizia. Ma la Cassazione ha derogato al principio, sostenendo che il limite temporale non vale per le notizie di reato apprese de- relato, cioè per sentito dire. E della deroga si abusa. Così l’intera mole delle confessioni dei pentiti è tornata a essere un sentito dire concordato nelle carceri e distillato, goccia a goccia, in una trattativa più o meno esplicita con l’inquirente di turno.

L’errore giudiziario perciò altro non è che un sistema erroneo, perché distorsivo rispetto alla finalità per cui è stato concepito dalla Costituzione e cioè l’accertamento dei reati. In realtà l’azione penale è venuta, strada facendo, assumendo tre funzioni diverse e più ampie nel nostro Paese: la prima riguarda la lotta alla criminalità, con l’effetto di imporre una logica di risultato perfino alla terzietà del giudice; la seconda riguarda il controllo della moralità pubblica e la bonifica della classe dirigente; la terza riguarda l’obiettivo di estendere i diritti in nome di una giustizia che spesso sopravanza e s’impone alla legge.

L’errore è il prezzo di queste tre tendenze, un effetto collaterale pagato dal singolo in nome di un obiettivo collettivo che s’impone, facendo strame di tutti i principi su cui dovrebbe fondarsi un diritto penale liberale, e in primo luogo il principio di proteggere l’innocente. In un sistema in cui questi è diventato un presunto colpevole, non può più parlarsi di errore.