Tre bravi ragazzi, oppure i tre «mostri di Ponticelli»? Il riscatto che Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo vanno cercando da quarant’anni può passare soltanto dalla revisione di una sentenza che li ha condannati all’ergastolo con il sigillo della Cassazione, nel 1987: per i giudici furono loro gli assassini di due bambine di 7 e 10 anni, Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, abusate e uccise il 2 luglio 1983. Una vicenda che sconvolse l’opinione pubblica, e che oggi Sky racconta nella docu-serie “Il delitto di Ponticelli. L’ombra del dubbio”.

“Il Delitto di Ponticelli. L’ombra del dubbio” è una docu-serie Sky Original, prodotta da Sky e Groenlandia. Di Emanuele Cava, scritta da Matteo Billi, Emanuele Cava con Shadi Cioffi. Regia di Christian Letruria.
“Il Delitto di Ponticelli. L’ombra del dubbio” è una docu-serie Sky Original, prodotta da Sky e Groenlandia. Di Emanuele Cava, scritta da Matteo Billi, Emanuele Cava con Shadi Cioffi. Regia di Christian Letruria.

I corpicini di Barbara e Nunzia furono trovati semi carbonizzati, l’uno sopra l’altro, come in un abbraccio. La ricerca durò solo un giorno: il terribile odore condusse subito all’alveo del fiume Pollena, nella periferia di Napoli, dove il delitto si manifestò in tutto il suo orrore. Chi poteva aver commesso una simile atrocità? L’autopsia evidenziò segni di violenza sessuale, i corpi riportavano ferite da arma da punto e taglio. “Opera di un sadico”, sentenziò il medico legale. E anche la caccia ai mostri partì subito: negli anni ‘80 i morti ammazzati dalla camorra erano all’ordine del giorno, ma quella notizia squarciò come un fulmine il Rione Incis di Ponticelli, dove le bimbe vivevano ed erano state avvistate per l’ultima volta.

A Napoli lo conoscono tutti, il Rione Incis: è quel quartiere alle porte della città dove tutti sono figli di tutti, ci si dà una mano a vicenda. La brava gente imbottiglia le conserve di pomodoro o cuce i guanti per le signore della Napoli alta. Tutto per mettere insieme il pranzo e la cena, mentre i bambini scorrazzano liberi giocando a palla o alla campana. Non in quei giorni, però. Finché i mostri erano a piede libero bisognava tenere al sicuro i più piccoli, la tv fissa sul telegiornale. Fuori le sirene risuonavano ad ogni ora, si passava al setaccio il quartiere e quelli limitrofi. Posti di blocco ad ogni angolo, con la pesca grossa trascinata in caserma per i primi interrogatori.

La prima pista

Furono in tanti a parlare, e all’inizio soprattutto i più piccoli: la prima pista arrivò da Antonella Mastrillo, che aveva visto Nunzia e Barbara per l’ultima volta alle 18 di quel tragico pomeriggio, mentre salivano a bordo di una 500 blu. Ad aspettarle c’era Gino, detto Tarzan, un tizio biondo e «tutte lentiggini». Le piccole lo avevano già incontrato altre volte, come raccontò un’altra bimba, Silvana Sasso, che a quell’appuntamento del 2 luglio avrebbe dovuto partecipare. La famiglia però la tenne a casa, salvandole di fatto la vita.

La caccia entrò nel vivo, gli inquirenti avevano finalmente un identikit. Che all’inizio sembrò corrispondere con quello di Corrado Enrico, un venditore ambulante noto nel quartiere. All’interrogatorio disse di essere solito adescare bambine, di avere problemi con l’alcol, il cui abuso lo portava «a compiere degli atti abnormi (atti osceni)», come si legge nel verbale dell’interrogatorio. Ai piccoli del quartiere l’uomo dice di chiamarsi “Luigi” e offre loro «caramelle e gomme da masticare» allo «scopo di poter familiarizzare». Barbara e Nunzia? «Ho appreso dal giornale circa 10 giorni fa della morte di due bambine uccise da un maniaco e bruciate. Sulla fotografia del giornale, o il Mattino o il Roma, ho visto la fotografia dei corpi delle due bambine che si presentavano abbracciate. Erano annerite dal fuoco e bruciate con la benzina...», raccontò ancora Corrado descrivendo con dovizia di particolari il luogo del ritrovamento. Pur ammettendo di non saper leggere. E nonostante la foto dei corpicini delle due bimbe non sia mai stata pubblicata dai giornali. L’auto? Corrispondeva, una 500 blu. Ma non fu mai sequestrata, e l’uomo se ne sbarazzò subito dopo. Lasciando per sempre aperta una pista che oggi ancora tormenta Ciro, Giuseppe e Luigi. Furono loro a finire in manette, alla fine: chi si aspettava di acchiappare un mostro, si trovò davanti tre guagliuncelli tra i 19 e i 20 anni.

La mano della camorra

La camorra entra in questa storia due volte. La prima sulla caserma Pastrengo di Napoli, dove furono interrogati anche i ragazzi per tre volte: la stampa lo definiva il “pentitificio”, per quell’andirivieni di collaboratori di giustizia che in questa vicenda hanno un ruolo centrale. «Tutto è cominciato lì sopra: le indagini avevano preso tutta un’altra piega, ma in quei quattro giorni cambiò tutto. Da testimoni, Giuseppe e Luigi divennero accusati», racconta al Dubbio Ciro Imperante, che si trovò coinvolto nel caso per ultimo.

A fare i loro nomi fu un altro ragazzo, Carmine Mastrillo, che raccontò di aver ricevuto la confessione da uno dei tre la sera del 2 luglio in discoteca. Nel giro di un’ora Giuseppe, Luigi e Ciro avrebbero quindi commesso il fatto, si sarebbero sbarazzati del corpo senza lasciare nessuna traccia, per poi vuotare il sacco. Tutto da soli? No, con l’aiuto di Salvatore La Rocca, il fratello di Giuseppe. Che alla fine confessò di aver avuto un ruolo nella vicenda, inchiodando i tre ragazzi alla loro condanna. Ma come si era arrivati a quel punto? Solo dopo si seppe che a parlare in realtà era stato il pentito Mario Incarnato, ex boss di Ponticelli, a cui Mastrillo avrebbe raccontato tutto. Parliamo del grande accusatore di Enzo Tortora, che in manette ci era finito nello stesso anno del delitto, il 1983. Fu proprio il giornalista a riproporre il caso anni dopo, una volta tornato in tv.

Come Tortora anche i tre ragazzi avevano subito la “passerella della vergogna”: uscirono in fila davanti alle telecamere dopo aver passato un’ora in piedi, faccia al muro, «massacrati di botte, ridotti in stracci». «Facemmo un giro in macchina prima di arrivare in carcere - racconta Ciro - io ero in stato confusionale. La gente ci sputava addosso, una cosa inumana». La storia dei ragazzi proseguì in carcere, dove si allestì un processo “parallelo” che si risolse nell’assoluzione. Lo raccontano loro: «Ci fu una riunione tra camorristi, per decidere la nostra sorte: morire o campare». Camparono.

Intanto Salvatore La Rocca aveva ritrattato la sua confessione: disse che gli era stata estorta con la violenza. E anche gli altri tre parlano di «tortura», delle pressioni subite sulla caserma Pastrengo, da cui uscirono mezzi rotti: lo certifica anche un referto medico del 5 settembre 1983, al primo ingresso nel carcere di Poggioreale. Anche Mastrillo ritrattò in aula, per poi ritrattare nuovamente subito dopo, con un incredibile colpo di scena che segnò la fine del primo capitolo giudiziario.

La pressione mediatica

“Ergastolo per i mostri”, tuonava la stampa ricalcando la richiesta dell’accusa al processo. Era partito il circo mediatico: i giornali non risparmiarono nulla ai tre ragazzi dopo quel tragico ‘83, e quelle accuse ora tornano sui media in forma di dubbio, come un boomerang. «È successo per colpa vostra, voi avete manovrato l’opinione pubblica», scandì Ciro La Rocca parlando coi giornalisti dopo la condanna in primo grado. Già allora sembrò impossibile credere che tre ragazzi di buona famiglia avessero commesso un delitto simile: del maniaco non avevano l’aspetto. Ma era una ragione valida per dubitare? La caccia aveva dato i suoi frutti, e la fretta di braccare il colpevole - complice l’imperativo dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini - giustificava qualche leggerezza. Perché la pista di Corrado Enrico, e le altre che seguirono, non furono battute fino in fondo?

Solo con la lente di oggi certi errori nelle indagini sembrano evidenti. Per come li mette in fila la docu-serie Sky Original, prodotta da Sky e Groenlandia e scritta da Matteo Billi, Emanuele Cava e Shadi Cioffi, per la regia di Christian Letruria. Sono in tutto quattro episodi, disponibili dal 22 aprile su Now, che ripercorrono con grande accuratezza l’intera vicenda giudiziaria su cui ora pende un terribile interrogativo: e se quei ragazzi fossero davvero innocenti, come si proclamano da quarant’anni? Potrebbe trattarsi di uno dei più clamorosi errori giudiziari della storia del nostro paese, come suggerisce anche la serie tv attraverso le voci dei protagonisti e delle figure che via via hanno seguito il caso, dalla stampa alla difesa, fino all’allora magistrato e senatore Ferdinando Imposimato, che persuaso dell’innocenza dei ragazzi portò avanti la battaglia per la prima revisione del processo. Un istituto posto a tutela dell’innocente, come spiega nella serie tv lo stesso avvocato di parte civile Alfonso Furgiuele, «a condizione che in via del tutto eccezionale emergano elementi che abbiano la forza probatoria per screditare totalmente un accertamento realizzato secondo le regole del processo dell’epoca».

Una nuova vita

Dal 2015 Giuseppe, Luigi e Ciro sono uomini liberi. Hanno pagato il loro conto con la giustizia, dopo 27 anni di carcere. Hanno un lavoro e una famiglia tutta loro. E mai, in questi anni, hanno messo in dubbio l’amicizia che ancora li unisce. Neanche nei momenti peggiori, quando il tempo in cella non passava mai e la prospettiva della morte sembrava migliore della morte in vita, dell’ergastolo. Hanno patito insieme anche la fame, nei venti giorni di digiuno che in nome della battaglia per la verità li ha ridotti in fin di vita.

«Se dovessi rivivere tutto quello che ho passato non ce la farei, mi toglierei la vita. È stato un inferno», dice Ciro. Che la forza di andare avanti l’ha trovata grazie alla «speranza che prima o poi la verità venga a galla». Una speranza che i tre ragazzi, dopo tre richieste di revisione respinte, ora ripongono nella commissione parlamentare antimafia che si è occupata del caso nella scorsa legislatura: i lavori dovrebbero riprendere entro maggio, con l’audizione dei testimoni chiave.

«Hanno ammazzato tre persone, anche se siamo vivi, dentro ci hanno ammazzato», dice ancora Ciro. «Ho 60 anni, la mia vita va verso il tramonto - aggiunge -. Ho una moglie e un figlio che adoro. Avrei potuto lasciar perdere, che interesse avrei a tornare sui giornali? Ma fermarci è impossibile, abbiamo lottato per tutti questi anni e non possiamo smettere ora. Voglio giustizia: per la mia famiglia, e per mio padre, morto con la speranza che suo figlio finalmente ottenesse giustizia».