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Il caso giudiziario è delicato e fa emergere questioni di tipo penalistico che non possono prescindere dal legame tra i soggetti coinvolti – un datore di lavoro ed un operaio, nipote del primo, morto dopo una caduta - con un dibattito da parte dei giuristi che si annuncia di estremo interesse. Ecco perché dovrebbe intervenire anche la Corte Costituzionale.
La vicenda. Un datore di lavoro è accusato di omicidio colposo per la morte del nipote, operaio deceduto a seguito della rovinosa caduta da un tetto. Il giudice della prima sezione penale del Tribunale di Firenze, Franco Attinà, evidenzia che il datore di lavoro, a proposito della condotta assunta, ha già patito una sofferenza morale proporzionata alla gravità del suo reato, con la conseguenza che una ulteriore pena inflitta con la sentenza di condanna sarebbe sproporzionata. Insomma, argomenta il magistrato, la persona accusata di un reato grave ha già sofferto. I dubbi che arrovellano ogni giurista attento rispetto a quanto succede nel mondo reale richiedono un approccio sensibile e competente. Il giudice Attinà, nelle venticinque pagine della propria ordinanza, depositata il 20 febbraio scorso, chiede che ad occuparsi della vicenda sia la Consulta. La questione di costituzionalità sollevata, come spiega lo stesso magistrato in un articolo pubblicato su “Giurisprudenza penale web”, ha per oggetto l’articolo 529 del Codice di procedura penale. Per la precisione la parte della norma che «per i procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità di emettere sentenza di non doversi procedere, allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto, cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso».
Snodo fondamentale del caso affrontato dal Tribunale di Firenze è la poena naturalis. «Siamo nell’ambito – scrive Attinà nell’ordinanza – di uno dei casi più importanti, forse il più rilevante, di poena naturalis, dovendosi intendere con tale espressione il male – di carattere fisico, morale o economico – che l’agente subisca per effetto della sua stessa condotta illecita (male che egli si autoinfligge o che gli viene inflitto da terzi, al di fuori della reazione sanzionatoria dell’ordinamento, in ragione della sua condotta)». L’ipotesi è quella in cui in cui l’autore del reato è anch’egli vittima, direttamente o indirettamente, del reato stesso. Attinà richiama, tra gli altri, i casi della madre condannata per omicidio colposo in relazione alla morte per annegamento del figlio minore, su cui aveva omesso la vigilanza, e quello del nipote condannato per omicidio colposo in relazione alla morte dello zio cagionata nel corso dei lavori di abbattimento di un albero. A questo punto emerge una argomentazione molto profonda con al centro l’imputato. «Tutti casi - commenta il giudice della prima sezione del Tribunale di Firenze - che hanno in comune la tragicità della vicenda, nell’ambito della quale l’autore del reato ha già patito una sofferenza morale, in relazione alla morte del congiunto, tale da rendere sproporzionata e inutilmente afflittiva la risposta sanzionatoria penale in danno di persone già (ben più) gravemente segnate dall’evento letale. Situazioni a fronte delle quali, tuttavia, l’ordinamento non contempla alcuna possibile rilevanza della “pena naturale”, se non nei limiti generali del possibile riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche o nell’ambito della commisurazione giudiziale della pena».
Secondo Paola Pasquinuzzi, avvocata del Foro di Firenze, il provvedimento del giudice Attinà pone all’attenzione una serie di questioni molto delicate. «L’ordinanza del Tribunale di Firenze – dice al Dubbio - va a toccare la sofferenza morale di un soggetto autore di un reato. Il giudice ha fatto un accertamento dibattimentale, affermando alla fine che ci sarebbe stata la prova della configurabilità del reato. Si sofferma però anche sul rapporto di consanguineità con la persona deceduta ai fini della condanna o di una sentenza di non doversi procedere. Il giudice si pone la domanda se astenersi o meno dal comminare una pena, così come è stabilito per legge. Per questo solleva la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 529 del Codice di procedura penale».
L’ordinanza di Firenze è molto innovativa, «nel senso che fino ad oggi nessuno aveva mai preso in esame la pena naturale, in questo caso la sofferenza». «Il fatto – aggiunge l’avvocata Pasquinuzzi - che un giudice entri nel mondo delle emozioni, del dolore, si parla addirittura di rimpianti, è sinceramente una questione molto interessante. Il caso che stiamo esaminando ha al centro uno zio-datore di lavoro, che rappresentava il punto di riferimento per la vittima e per la sua famiglia».
Un ultimo tema è quello dei margini di manovra del giudice. «La facoltà di astenersi dal condannare – conclude Paola Pasquinuzzi - sarebbe una cosa piuttosto rivoluzionaria, ma lascerebbe una discrezionalità al giudice eccessiva. Quali sarebbero i limiti in cui il giudice potrebbe usufruire di questa facoltà di astenersi? È un tema davvero dirompente, perché va toccare le corde profonde dell'individuo».