Antonio De Pace, l’infermiere calabrese che nel 2020 uccise la fidanzata Lorena Quaranta e poi tentò il suicidio prima di avvertire i carabinieri e confessare il delitto, non è stato assolto. Nessun tribunale ha annullato l’ergastolo, pena cui fu condannato fino in appello. Nessun “colpo di spugna”, dunque.

Pure, giornali e tv si sono scatenati a gridare che la Cassazione aveva “annullato l’ergastolo”, suscitando le ire di parenti e amici della ragazza uccisa, emozioni comprensibili, ma anche reazioni stizzite e stupide, perché “ignoranti”, di esponenti politici di diversi partiti. Perché ignoranti? Per la semplice ragione che a quanto pare nessuno si è premurato di leggere la sentenza, o almeno una sua sintesi. La Cassazione infatti ha annullato con rinvio una sola parte della decisione della Corte d’Appello, quella in cui erano state negate le attenuanti generiche a un imputato incensurato, cosa che raramente avviene.

La seconda sezione della Corte Suprema ha ritenuto in particolare che Antonio De Pace, benché in grado di intendere e di volere al momento del delitto (la cui premeditazione era comunque già stata esclusa), in piena epidemia da covid 19, non fosse stato in grado “di contrastare lo stato di angoscia del quale era preda”. I giudici di merito, dice la Cassazione, avrebbero dovuto tener conto del contesto e dello stato di angoscia e stress che avevano portato al litigio tra i due fidanzati e poi al grave delitto. E avrebbero dovuto concedere le attenuanti generiche. Ma comunque condannare un omicida reo confesso, ovviamente.

La sentenza andrebbe esaminata con la freddezza che ogni processo e ogni decisione, sia di assoluzione che di condanna, richiede. In diverse reti tv ieri abbiamo assistito al dolore dei genitori di Lorena, lo stato d’animo che si rinnova a ogni scadenza processuale. Ma, invece di andare a frugare nei loro sentimenti più intimi, invece di scatenare la morbosità voyeuristica che sempre si accompagna a queste vicende, qualcuno, a partire dal loro avvocato, dovrebbe spiegare loro che nessuno sta chiedendo di assolvere chi ha colpito e ucciso. Si tratta solo di una questione tecnica, una rivalutazione del gioco aggravanti- attenuanti e di conseguenza dell’entità della pena. Che cosa può cambiare, nel dolore di una famiglia e nella sacrosanta richiesta di giustizia e di condanna di un “femminicida”, se la pena consista in quella eterna o invece nella misura di 30 anni di carcere? O anche di 24, come viene paventato?

Quello che cambia, e molto, è questa continua istigazione, nei confronti dei parenti delle vittime, a chiedere manette e impiccagioni al palo più alto, invece che giustizia. Come se la sentenza equa fosse solo quella che condanna. Come se non fosse neppure necessario il processo, ma subito dopo il delitto si fosse già emessa la sentenza. Quella mediatica è infatti immediata, e si nutre del lessico più brutale, che va dal “vergogna” fino al “bastardi” e il lapidario “l’hanno uccisa due volte”. L’abbiamo già visto, lo vediamo tutti i giorni.

Partiamo dall’ultimo caso, la decisione della Corte d’assise d’appello di Roma che ha disposto la detenzione domiciliare per uno dei due ragazzi statunitensi condannati per l’omicidio del carabiniere Cerciello Rega, Natale Hjorth, che non era stato l’esecutore materiale. Si potrebbe andare all’indietro, al processo per l’omicidio di Serena Mollicone fino alla sentenza sulla sciagura di Rigopiano. Il verdetto è sempre lo sesso: fare giustizia è solo condannare, possibilmente alla pena più elevata.

Non è escluso che, per alcuni, il pensiero vada alla pena capitale, per fortuna esclusa dal nostro ordinamento. Si potrebbe andare di parecchio all’indietro, e ricordare la famosa “sentenza dei blue- jeans” del 1999, che destò scandalo in tutto il mondo dopo che quattro deputate di centrodestra si fecero fotografare davanti a Montecitorio indossando lo stesso indumento della ragazza che aveva denunciato, per protestare contro l’assoluzione del presunto stupratore. Sentenza che nessuno aveva letto, ma in cui l’argomento della difficoltà a sfilare dal corpo i jeans era solo uno degli argomenti che avevano indotto a decidere in favore dell’imputato sia i giudici di primo grado che la Cassazione.

Il fatto che diversi esponenti politici in modo superficiale e disinformato si approprino del primo titolo scandalistico di giornale o agenzia per farsi immediata pubblicità con la richiesta di forche è gravissimo. Nel caso di Antonio De Pace, si va dai deputati di Fratelli d’Italia Alessandro Urzì e il vicepresidente Alfredo Antoniozzi, che parla di giudici che «giustificano» gli autori di «brutali delitti di omicidio», fino a esponenti della sinistra. Luana Zanella, capogruppo di Avs alla Camera, dice che «così non si abbatterà mai l’infrastruttura ideologica e culturale del patriarcato che alimenta la violenza maschile sulle donne». Per il Pd e la deputata De Biase la notizia della sentenza è «terribile», mentre è «incredula» la sua collega senatrice Cecilia D’Elia. Daniela Sbrollini di IV teme che si crei un precedente, e Mara Carfagna di Azione conclude lapidaria: «Preoccupa e sorprende la Cassazione. Vuol dire che la strada da fare è ancora lunga».

Tutte persone in buona fede, sicure di parlare in nome della giustizia. Ma le loro parole così sincere e così “ignoranti” echeggiano quel tragico applauso liberatorio con cui gruppi di femministe salutarono gli ergastoli al termine del famoso Processo per stupro degli anni Settanta del secolo scorso. Quando le donne, e soprattutto gli uomini e la loro subcultura in fatto di violenza di genere e di diritti di tutti, avevano ancora tanto cammino da fare. Ma oggi? Tutti questi parlamentari così virtuosi vogliono davvero la morte civile per questo ragazzo assassino? Non bastano trent’anni di carcere?