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Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 19-07-2016 Roma Cronaca Fausta Bonino all'evento "Fino a prova contraria" Nella foto Fausta Bonino Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 19-07-2016 Rome (Italy) News Fausta Bonino at "Fino a prova contraria" In the pic Fausta Bonino
Diventa definitivo l’ergastolo per Fausta Bonino, l’infermiera accusata di quattro omicidi, consumati nel reparto di Terapia Intensiva dell’ospedale di Villamarina nel 2015. La sentenza è arrivata alle 20, dopo ore di camera di consiglio, a seguito delle quali la V sezione penale ha deciso di respingere il ricorso dell’avvocato Vinicio Nardo, così come chiesto dalla procura generale, rappresentata dal sostituto Antonio Balsamo.
Per il rappresentante dell’accusa il reparto dell’ospedale di Piombino «non consentiva l’ingresso incontrollato. Non c’è traccia di altre persone nel reparto in occasione dei quattro decessi», ha sottolineato Balsamo. Tesi completamente opposta a quella sostenuta non solo dalla difesa, ma anche da vari esperti e testimoni. Condannata in primo grado all’ergastolo, Bonino, per 30 anni infermiera dell’ospedale di Piombino, dal 2015 è stata sbattuta sui giornali come “infermiera killer”. Un’etichetta che le era stata strappata via con un’assoluzione piena dalla Corte d’Appello di Firenze, che aveva evidenziato pesanti lacune nelle indagini, definendo l’inchiesta a suo carico un teorema «destituito di fondamento».
La Cassazione, però, ha rimandato indietro il processo, facendola ripiombare «in un incubo». E il 29 maggio scorso il dibattimento in Corte d’Appello si è concluso con una nuova condanna all’ergastolo, per quattro omicidi sui dieci contestati dalla procura, tutti consumati in reparto con la somministrazione di dosi massicce di eparina. A lasciare stupiti è, soprattutto, il movente: la depressione e una pregressa epilessia che - secondo i magistrati - non venivano più seguite dai medici e che l’avrebbero alterata al punto da trasformarla in un mostro. Per sei morti, inoltre, non esiste un colpevole: stando alla sentenza, infatti, gli omicidi non sarebbero stati commessi da Bonino, ma sarebbero comunque morti violente. Ma su chi ne sia stato l’autore nessuno sembra interrogarsi.
L’ex infermiera si è sempre definita un «capro espiatorio per indagini fatte male». Perché a lei si è arrivati per esclusione: l’unico elemento a suo carico sembra essere la sua presenza in reparto ogni volta che si è registrata una morte sospetta. Ma si tratterebbe di elementi indiziari: il killer, secondo l’accusa, avrebbe lasciato la propria traccia timbrando con il cartellino.
E come prova, secondo i primi giudici d’appello, non basterebbe, anche perché nel corso del processo «più testimoni hanno riferito che capitava che sanitari di qualsiasi reparto timbrassero la propria uscita e poi tornassero in reparto anche fuori servizio, senza utilizzare il badge e quindi senza far rilevare la propria presenza e che non c’era nessun badge né tornello per identificare l’ingresso di una persona in terapia intensiva. Per di più i testimoni hanno dimostrato che vi erano porte spesso aperte o facilmente apribili dall’esterno».
Non sarebbe poi mai stato accertato, secondo la difesa, in che modo la donna sarebbe riuscita a somministrare ai pazienti la sostanza nel tempo individuato dall’accusa. Ma non solo: Bonino ha raccontato di essere stata sottoposta «a pressioni enormi» durante le indagini, con l’invito a «confessare» per essere «aiutata». «Era una situazione complicata, essendo arrivati con un ergastolo in Cassazione - ha spiegato Nardo dopo la lettura della sentenza -. Era una vicenda molto complessa, che lasciava spazi di dubbio amplissimi. E devo dire che i giudici hanno ascoltato con attenzione la mia discussione. Purtroppo è andata così».
A intervenire in suo aiuto erano stati anche due professionisti: Aldo Appiani, consulente medico della difesa, e Alberta Brambilla Pisoni, avvocata in pensione che ha collaborato con la difesa. Secondo Appiani, l’analisi dettagliata di ben due casi sui quattro per i quali è stata condannata dimostrerebbe che Bonino «non avrebbe potuto in nessun modo somministrare il farmaco». Uno dei pazienti, infatti, fu sorpreso da una gravissima emorragia dopo un importante intervento di riduzione di una frattura femorale.
«Non è assolutamente verosimile che la somministrazione di eparina fosse stata data prima dell’intervento, come asserito dall’accusa, perché in questo caso l’emorragia infrenabile sarebbe comparsa fin dall’inizio dell’intervento e di ciò non c’è traccia né nella cartella della sala operatoria né nelle testimonianze rese successivamente dal relativo personale medico ed infermieristico. È evidente che l’eparina è stata data dopo l’intervento, come del resto asserito dal giudice di primo grado, ma in questo caso numerose testimonianze negano con decisione che la Bonino si potesse essere avvicinata al paziente, scortato da due medici e quattro infermiere dalla sala operatoria al reparto».
Un secondo paziente, arrivato d’urgenza in rianimazione dalla medicina, per gravi problemi respiratori, è stato scortato da sei sanitari, tra i quali non era presente Bonino, che dunque non sarebbe passata inosservata qualora avesse somministrato una siringa piena di eparina. Per Pisoni, invece, «non esiste agli atti alcuna prova» della responsabilità di Bonino, «né tantomeno dell’accertato omicidio degli altri sei pazienti per cui è stata assolta per non aver commesso il fatto».
Una formula che conferma che si è trattato di omicidi, ma non per mano di Bonino - che ieri sera si è costituita in carcere -, che per quei sei casi è stata assolta definitivamente. «C’è dunque da chiedersi chi sia l’omicida a piede libero e perché non vengono riprese le indagini», aveva sottolineato la legale, secondo cui la donna «è servita come capro espiatorio all’assassino, che ha agito, ovviamente senza timbrare il cartellino, proprio solo quando lei era presente». Dubbi apparentemente ragionevoli, nonostante i quali Bonino è stata comunque condannata.