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IMAGOECONOMICA
«Ci si deve domandare (...) che ne sarebbe del diritto di difesa se i rapporti economici tra indagato e difensore fossero scandagliati sotto la lente – particolarmente penetrante – della ricettazione e/o dell’incauto acquisto». A scriverlo è il gip del Tribunale di Milano Roberto Crepaldi, che ha respinto la richiesta di interdittiva avanzata dalla procura nei confronti di due avvocati.
Secondo l’accusa, i due, difensori del presunto boss della mafia turca Baris Boyun in un altro procedimento, si sarebbe fatti pagare con denaro sporco «essendone consapevoli, con l’aggravante di avere commesso i fatti nell’esercizio della professione legale in quanto nominati di fiducia» dal turco. Un’opzione respinta dal gip, che ha allertato i colleghi pubblici ministeri sul rischio di confondere i piani. Sul rischio, cioè, di “screditare” la funzione difensiva, di fatto impedendone il libero esercizio, laddove il pagamento dell’onorario venisse inteso come concorso in un reato. Il classico cortocircuito, insomma, che vuole il difensore complice del proprio assistito. Di più, identificato con esso.
La notizia è stata però data in pasto ai giornali così: anche sulle grandi testate, infatti, le ipotesi d’accusa sono state messe in bocca al giudice delle indagini preliminari. Il contrario di quanto avvenuto, dal momento che il gip, per spiegare ai colleghi l’assurdità dell’accusa, ha pure tirato in ballo la giurisprudenza tedesca, nel tentativo di chiarire i rischi di un simile modo di procedere. Anche perché gli indizi per attribuire ai due difensori una consapevolezza della possibile provenienza illecita di quei soldi si riducono a pochi elementi, del tutto ambigui e peraltro frutto di intercettazioni tra indagato e assistito, un fatto vietato dalla legge: secondo il pubblico ministero Bruna Albertini, «la consapevolezza dell’illiceità dell’origine del denaro deriverebbe dal contenuto di un dialogo intercettato, nel quale il Boyun afferma, riferito ai due difensori, che “siamo diventati amici, quasi come fratelli e durerà per sempre/fino alla morte questo legame. Quando c’è un problema qui, ci riuniremo frequentemente». Frase che si accompagna all’appellativo “grande capo Boris”, utilizzato da uno dei due avvocati per riferirsi a Boyun. Ma quella frase viene pronunciata in tono scherzoso, scrive il gip. E da sola, d’altronde, cosa potrebbe significare?
Quando si ipotizza la ricettazione in capo ad un avvocato, dice il gip, serve «cautela», per un duplice ordine di ragioni. «In primo luogo, egli ha fisiologicamente rapporti economici con soggetti quantomeno sospettati di aver commesso un delitto, cosicché l’eventuale consapevolezza della qualità criminale del proprio debitore - già insufficiente secondo l’opinione della Suprema Corte in relazione ad un normale rapporto obbligatorio - deve essere considerata irrilevante - scrive il giudice -. Se così non fosse, infatti, il difensore non potrebbe mai esigere il pagamento degli onorari dal proprio assistito quando egli gli abbia confessato – in seno al rapporto fiduciario - di essere dedito al crimine, ovvero dopo la condanna definitiva del cliente privo di lecite fonti di reddito. In secondo luogo, non può non evidenziarsi la delicatezza della situazione qui vagliata, stante la necessità di considerare gli interessi sottesi al rapporto difensivo, il quale si differenzia da qualsiasi altro rapporto contrattuale perché attiene al fondamentale – anche sul piano costituzionale – diritto di difesa». Che potrebbe andare a farsi benedire se i rapporti economici tra le parti, appunto, fossero intesi come affari “loschi”.
Il gip ha seguito la strada della giurisprudenza tedesca, che per non «pregiudicare il diritto al libero esercizio della professione e il diritto di difesa del cliente» ha optato per «un approccio restrittivo», con la possibilità di effettuare incriminazioni solo quando «il professionista abbia piena ed attuale consapevolezza dell’origine delittuosa del denaro, lasciando fuori dall’area della rilevanza penale situazioni di mero sospetto». Leggere il pagamento di una parcella sotto la lente del riciclaggio o della ricettazione, infatti, rischia «di interferire con la serenità del rapporto difensivo (intesa come libertà dell’assistito di confidare particolari contra sé e del difensore di ricevere tali confidenze), di creare conflitti di interessi tra difensore e assistito, costringendolo a scegliere tra la rinuncia al mandato e il compenso e, in fondo, interferendo con il diritto costituzionale di difesa».
Da qui la condivisione della soluzione tedesca: un penalista, scrive il giudice, «potrà essere punibile solo se ha acquisito, al momento dell’accettazione, la certezza che il denaro proviene da reato, senza che si possano imporre a questi obblighi di indagine sulle fonti di reddito (legali o illegali) del cliente». Proprio per tale motivo, date le fonti di prova, è stato impossibile accogliere la richiesta del pm. In primo luogo in quanto i dialoghi utilizzati come indizio «non offrono particolari spunti»: «Non è stato evidenziata alcun rapporto anomalo tra i due difensori e il Boyun», scrive il giudice. Di più: «Non sono emerse condotte di favoreggiamento dei difensori né nulla che, sotto il profilo penale o anche solo deontologico, suggerisca una cointeressenza patologica». E per vedere nell’appellativo “grande capo” un indizio, aggiunge il gip, servirebbe «un grosso sforzo di fantasia».
L’unico fattore sospetto resta il pagamento in contanti, date anche le somme elevate (decine di migliaia di euro). Ma il quadro è «reso ulteriormente incerto, sotto il profilo della piena consapevolezza dei due, dalle caratteristiche del debitore: il contante, infatti, potrebbe trovare spiegazione alternativa anche nel fatto che trattasi di soggetti stranieri, privi di un’occupazione in Italia e il cui sostentamento ben potrebbe essere garantito da soggetti ancora residenti in patria, i quali invierebbero le somme necessarie in contanti».
La vicenda ha suscitato la preoccupazione del Coa di Milano, che già aveva protestato vibratamente per le indagini a carico di Alessia Pontenani, avvocato di Alessia Pifferi, condannata per aver lasciato morire di stenti la figlia di soli 18 mesi. Un’indagine, avevano detto, che metteva a rischio il diritto di difesa. Il Coa ha espresso preoccupazione, auspicando «che sia sempre garantito il diritto costituzionale di difesa, avendo, peraltro, sempre tutelato l’autonomia e l’indipendenza di ogni iniziativa investigativa». Un auspicio fatto proprio anche dal Movimento Forense: «È necessario voltare pagina - si legge in una nota -, salutando appunto un’epoca triste che vede, tra le tante, il martirio processuale che subiscono per decenni famosi servitori dello Stato».
Dura la reazione della Camera penale meneghina: «Avevamo denunciato, nella vicenda Pifferi, un’impostazione culturale che sospetta del difensore, lo vorrebbe docile nell’esercizio del proprio ruolo e lo inquisisce a processo in corso – si legge in una nota -. Il tutto con il corredo di spigolature a mezzo stampa che travolgono la presunzione d’innocenza e contaminano le regole per la formazione della prova. La notizia di ieri è l’ennesimo salto di qualità. A poco più di due mesi dall’astensione e dalla partecipata assemblea del 20 marzo scorso è chiarissimo che il diritto ad una piena e libera difesa è tutt’altro che scontato e richiede di essere tutelato, nella nostra quotidiana esperienza di avvocati penalisti e in tutte le sedi istituzionali».
Solidarietà ai due avvocati è arrivata anche dalla Camera penale di Roma, che richiama il codice di procedura penale e, in particolare, l’articolo 103, che tutela le conversazioni tra avvocato e assistito. Articolo che, affermano i penalisti nella nota, non è stato adeguatamente “difeso” nemmeno dal gip, che pure ha scongiurato la misura interdittiva. «La delicatezza e particolarità del rapporto professionale che scrutina gli fa contenere la richiesta cautelare sul versante del dolo del delitto, lasciando invece tracimare le pretese dell’accusa proprio sul nervo scoperto della riservatezza dei dialoghi con l’assistito: lo sarebbero solo quando riferiti al processo per cui è conferita la nomina, secondo l’ordinanza; il che implicherebbe per un verso che sia comunque consentito l’ascolto dei dialoghi per poterli catalogare e, per altro verso, che il difensore attivasse, mentre parla con l’assistito, una sorta di interruttore dei temi - scrive la Camera penale -. È stato uno dei più autorevoli avvocati che il nostro Foro abbia mai conosciuto, Giovanni Aricò, a ricordare che, se quello penale è il codice dei delinquenti, quello di procedura è il codice dei galantuomini. Si farebbe meglio a rileggerlo, di tanto in tanto».