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Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante la seduta del Consiglio Superiore della Magistratura
Per un intero fine settimana, una parte delle toghe del Consiglio superiore della magistratura ha lavorato nel tentativo di convincere i colleghi di Magistratura indipendente che era il caso di prendere posizione. Non per difendere il merito dei provvedimenti della sezione immigrazione del Tribunale di Roma, che ha ritenuto illegittimi i trattenimenti dei migranti in Albania, ma per contrastare la «campagna in atto contro la magistratura». E data la decisione di Mi di non sottoscrivere la pratica a tutela dei magistrati romani, chiesta oggi da 16 consiglieri (quindi la maggioranza del plenum), la conseguenza immediata, si legge nelle chat e nelle mail, è quella di offrire l’immagine di una «frattura» nel mondo della magistratura, immagine che «verrà certamente cavalcata» e che «non ci voleva in un momento tanto grave».
Il richiamo all’unità, «a fronte della gravità e palese infondatezza degli attacchi ai magistrati» è dunque fallito. Per giornali di destra si trattava di una chiamata alle armi contro il governo Meloni. L’idea era però quella di inviare un «segnale di una compattezza della magistratura». Ma tale unità sembra non esserci. Anzi, l’idea è che le divisioni siano proprio dettate da logiche politiche e di campagna elettorale, in vista del rinnovo dei vertici dell’Associazione nazionale magistrati. Il testo della richiesta di pratica a tutela era stato pensato per essere bipartisan, «incentrato chiaramente ed esclusivamente sulla difesa della giurisdizione, a prescindere ovviamente da valutazione nel merito dei provvedimenti». Mi, però, ha rifiutato l’offerta rilasciando un breve comunicato, che rafforza l’idea di una scelta politica: pur esprimendo «solidarietà ai colleghi del tribunale di Roma» e dicendosi certi del fatto che abbiano, «in coscienza, applicato il diritto con professionalità e indipendenza», la richiesta sarebbe carente di un punto: «La necessaria presa d’atto della inopportunità delle dichiarazioni pubbliche in precedenza rilasciate da un componente della sezione immigrazione, firmatario dei provvedimenti, con le quali era già stata più volte manifestata una precisa e netta posizione di contrarietà alla normativa da applicare». Il riferimento è alla toga di Magistratura democratica, Silvia Albano, che aveva criticato pubblicamente il piano del governo dei cpr in Albania. «Le critiche su provvedimenti giudiziari sono legittime - hanno sottolineato Paola D’Ovidio, Maria Vittoria Marchianò, Maria Luisa Mazzola, Bernadette Nicotra, Edoardo Cilenti, Eligio Paolini e Dario Scaletta, toghe di Mi in Csm -, ma devono essere ispirate a criteri di continenza ed ancorate alla motivazione giuridica ivi espressa».
Niente più che la solidarietà, dunque. La pratica è stata sottoscritta da tutti i togati - Area, Magistratura democratica, Unicost e gli indipendenti Roberto Fontana ed Andrea Mirenda - e tre laici - Ernesto Carbone, Michele Papa e Roberto Romboli. Ma cosa prevede? «Le critiche alle decisioni giudiziarie non possono travalicare il doveroso rispetto per la magistratura: applicare e interpretare le leggi di fonte nazionale e sovranazionale nei singoli casi non significa occuparsi di politiche migratorie o di altro genere» si legge nel documento sul quale si esprimerà tra pochi giorni il Comitato di presidenza, composto dal vicepresidente Fabio Pinelli e dai vertici della Cassazione, la prima presidente Margherita Cassano e il procuratore generale Luigi Salvato. I consiglieri di Palazzo Bachelet evidenziano la sostanziale inevitabilità della soluzione adottata dal tribunale di Roma alla luce della pronuncia della Cgue: «I provvedimenti attaccati – sui quali non si esprime alcuna valutazione di merito – si fondano sulle decisioni della Corte di Giustizia europea, vincolanti per i giudici nazionali, e sulle informazioni predisposte dallo stesso ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale». Tanto che tra le toghe, anche al di fuori dai vincoli associativi, circola l’idea che quella del governo sia stata una mossa studiata: farsi bocciare il piano Albania per poter rilanciare la battaglia contro la magistratura.
«Le ordinanze del Tribunale di Roma – se non condivise – possono essere impugnate innanzi alla Corte di Cassazione - continua la nota -, come peraltro avvenuto in un caso similare di qualche mese fa e riferito alla cauzione prevista dal c.d. decreto Cutro, altro momento di tensione tra toghe e politica. Il documento si conclude sostenendo che «le dichiarazioni di queste ore da parte di importanti rappresentanti delle istituzioni alimentano un ingiustificato discredito nei confronti della magistratura, tanto da imporre l’apertura di una pratica a tutela della sua indipendenza e autonomia».
A commentare apertamente la scelta dei togati di Mi è l’indipendente Fontana, che ha definito «molto preoccupante» la scelta dei colleghi. «Se sei magistrati del Tribunale di Roma emettono delle ordinanze con cui non convalidano dei trattenimenti di immigrati, applicando un orientamento interpretativo che è frutto di un approfondito confronto che ha coinvolto tutti i magistrati componenti la sezione, e queste ordinanze - ritenute da più parti molto solide - e i magistrati che le hanno adottate vengono fatte oggetto di un violento attacco, non risulta ragionevolmente comprensibile per quale ragione una precedente presa di posizione, nella fase del dibattito sul varo delle nuove norme, da parte di un magistrato della sezione dovrebbe far venire meno l’esigenza di un’iniziativa a tutela del complesso dei magistrati della sezione – scrive in una mail indirizzata ai colleghi -. Ma il rilievo più grave attiene all’idea, sottesa al comunicato, che i magistrati non possano prendere posizione nell’ambito del dibattito che precede il varo di nuove norme, pena il dovere di astensione quando quelle norme, una volta approvate, diventano oggetto di applicazione». Una posizione che dovrebbe rendere incompatibile un numero enorme di magistrati, data la quantità di commenti giornalmente sciorinata dalla magistratura sui vari interventi legislativi.
«Ero certo che si sarebbe arrivati ad una richiesta sottoscritta da tutti i consiglieri togati, nella convinzione che sui temi di fondo, con i dovuti distinguo e le opportune precisazioni, alla fine una linea di azione condivisa la di debba trovare sempre – continua Fontana -. Questo mi fa pensare che oggi la spinta propulsiva al cambiamento degli assetti costituzionali è così forte che non si riesce a tenere unita la magistratura e nella specie i consiglieri togati del Csm su una presa di posizione che fino a poco tempo fa avremmo tutti ritenuto scontata. Mi pare che questi siano i segnali che ci si sta preparando anche sul piano culturale ai nuovi assetti. La divisone di oggi in Consiglio è una grave sconfitta perché, pur riguardando una vicenda specifica - ma anche di grande valore simbolico per la chiarezza con cui si attacca direttamente l’attività giurisdizionale in quanto tale (peraltro in un ambito diverso da quello tradizionale dell'azione penale in materia di reati contro la Pa o di rapporti tra politica e fenomeni mafiosi) - veicola il messaggio , soprattutto a chi vuole fortemente il mutamento degli assetti costituzionali ma più in generale all'opinione pubblica, che un varco si sta aprendo, anche all'interno della magistratura, sul piano anzitutto dell’introiezione progressiva di un modello di magistratura in linea con gli scenari che si stanno delineando per quanto attiene ai rapporti con gli altri poteri istituzionali».
Nel dibattito è intervenuta anche l’Anm, che con una nota ha chiesto il rispetto della giurisdizione «come esercizio di una funzione del tutto autonoma ed indipendente. Non può attendersi dalla magistratura che assuma decisioni ispirate dalla necessità di collaborazione con il governo di turno. Se agisse facendosi carico delle attese della politica, la Magistratura tradirebbe il mandato costituzionale», afferma la Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati in una nota. Critico anche il gruppo Articolo 101: «Neanche ai tempi di Silvio Berlusconi vi era tanto accanimento e tanta acrimonia nei confronti della magistratura - si legge in una nota -. Queste condotte costituiscono chiare intimidazioni e interferenze nei confronti di un potere dello Stato».