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GIORGIA MELONI PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E MATTEO SALVINI MINISTRO DELLE INFRASTRUTTURE
Passa un’ora, scarsa. Un’ora dalla notizia dell’ennesima decisione sui migranti contraria al governo, dall’ennesima batosta che incenerisce il decreto Paesi sicuri e la politica dell’Esecutivo Meloni sui trattenimenti. Basta, a Matteo Salvini, per sfornare a propria volta l’ennesima dichiarazione anti-giudici.
«Se uno di questi sette clandestini che per colpa di questa sentenza torneranno in Italia commetteranno un reato, chi paga? È arrivato il momento di approvare la separazione delle carriere e la responsabilità civile dei magistrati». Rischia di andare avanti così all’infinito. Perché il vulnus normativo è chiarissimo, ormai: le misure fin qui adottate per legittimare la “deportazione” dei migranti sull’altra sponda dell’Adriatico non reggono. E che non avrebbero retto, era in fondo chiaro, alla presidente del Consiglio, prima ancora che il Dl Paesi sicuri fosse varato.
Davanti a chi le anticipò, lo scorso 20 ottobre, il rischio di una valanga di pronunce giudiziarie, motivate e difficilmente attaccabili, contrarie al “modello Albania” e al provvedimento emergenziale del Consiglio dei ministri, Meloni scosse la testa e replicò: «Dobbiamo comunque dare un segnale politico: il trattenimento in Albania ha senso per far comprendere anche a chi lucra sul traffico di esseri umani che l’Italia è una meta difficile da raggiungere». Chiaro. Chiarissimo. Almeno quanto lo scenario che la presidente del Consiglio doveva avere davanti a sé quel giorno: l’elenco dei Paesi verso i quali l’Italia si autodichiarava non obbligata a garantire l’asilo politico avrebbe retto molto a fatica. Così è stato.
Alcuni giudici hanno semplicemente disapplicato il decreto, che arriva a definire “sicuro” anche un Paese come l’Egitto, in cui Giulio Regeni è stato barbaramente torturato e ucciso perché, secondo gli aguzzini dello Stato nordafricano, forse era una spia (e non lo era). Era facile immaginare che il combinato disposto fra simili dati storici e la giurisprudenza sovranazionale cristallizzata nella pronuncia della Corte di Giustizia Ue dello scorso 4 ottobre avrebbe trasformato il Dl Paesi sicuri in un proiettile a salve.
Adesso, da alcuni giorni, Giorgia Meloni ha un obiettivo: uscire dall’impasse, assorbire le inevitabili sconfitte in tribunale, incassare i colpi e rassegnarsi al ridimensionamento del modello Albania. In attesa di tempi migliori e del nuovo “Patto migrazione e asilo” europeo, che sarà efficace solo nel 2026. Non è certo un balsamo, come situazione, per un Esecutivo di centrodestra. Si è creato quello che da giorni viene definito un “cul de sac” proprio su una delle materie più identitarie per un governo a guida conservatrice. Capita.
Dai vicoli ciechi tocca uscire, e in fretta. Evitare di rimanerci intrappolati. Ed è esattamente quello che Meloni intende fare. Che Meloni e Nordio, anzi, intendono fare. La prima per ragioni politiche intuibili, il secondo perché ha la competenza per comprendere quanto inutile sarebbe, per il centrodestra, sbattere la testa contro il muro, insistere in una battaglia già persa. Non è un caso che il guardasigilli abbia scelto una nuova strategia, nel confronto con l’Anm e la magistratura in generale: la “distensione con riserva”. Cioè la tregua armata. È il senso del discorso pronunciato dal ministro in occasione dei 60 anni di Magistratura democratica, corrente a cui sono iscritti alcuni, ma solo alcuni, dei giudici autori delle decisioni sfavorevoli all’Esecutivo sui migranti.
Il quadro sarebbe ormai ben definito. Se non fosse che a complicarlo c’è appunto Salvini. Niente affatto intenzionato ad abbassare i toni nei confronti dei giudici. E a riconoscere l’irrecuperabile vantaggio che le toghe hanno acquisito, almeno a medio termine, nei confronti della politica, sulla questione migranti in Albania. A Salvini si aggiungono altre voci della maggioranza: sempre ieri Maurizio Gasparri ha definito i magistrati “eversivi”. Sarebbe tutto, in fondo, fisiologico: centrodestra diviso su un dossier molto identitario e altrettanto controverso.
Ma sulla giustizia, generalmente intesa, Meloni punta forte. Sulla separazione delle carriere in particolare: i motivi sono diversi, ma si tratta innanzitutto dell’esigenza di riequilibrare i rapporti fra politica e toghe. L’obiettivo passa per una riforma costituzionale, quella sulle “carriere” appunto, prossima all’approdo in Aula: entro questa settimana arriverà il via libera della commissione Affari costituzionali, che pur di smaltire i 262 emendamenti, tutti dell’opposizione, è pronta a più di una “notturna”.
Sulla strada che Meloni intende percorrere, nella dialettica coi magistrati, c’è pure il referendum a cui il ddl di Nordio sulle carriere separate sarà inevitabilmente sottoposto. Se ci si arrivasse dopo mesi e mesi di batoste riportate dal governo sui migranti nei tribunali, italiani e non, il rischio serissimo è che, a quel referendum, la magistratura si presenti rafforzata. Rinvigorita dallo spot della vittoriosa “guerra” sui richiedenti asilo. La prospettiva peggiore, per Meloni. Lei lo sa, Nordio lo sa. Forse lo sa pure Salvini. Che però non ha intenzione di trarne le conseguenze.