Maurizio Avola, il giorno della strage di Via D’Amelio, non solo aveva la possibilità di rimuovere il gesso dal braccio, ma poteva tranquillamente, seppur con qualche disagio, svolgere le normali attività quotidiane, compreso il sollevamento di piccoli pesi. Questo è il risultato della perizia disposta dal Gip di Caltanissetta, Santi Bologna, per accertare se il racconto dell’ex pentito fosse vero. Si tratta di un altro duro colpo per chi, a priori, ha accusato di depistaggio l’ex collaboratore catanese per le sue dichiarazioni.

Non solo Avola risulta credibile, ma già come si evince dall’ordinanza del Gip, che ha rigettato la richiesta di archiviazione, le sue dichiarazioni sono utili soprattutto per risalire a tutti i membri del commando mafioso che hanno partecipato all’esecuzione della strage del 19 luglio 1992. Ricordiamo che sia l’ordinanza del Gip, sia il responso della perizia depositata due giorni fa, smentisce categoricamente un gruppo di pressione legato a una specifica fazione antimafia, che ha accusato Avola di depistaggio. A ciò va aggiunto il comunicato stampa precipitoso della Procura di Caltanissetta che ha accusato l’ex pentito di falsità nelle sue dichiarazioni, compreso il fatto che era impossibile che, fermato a un controllo di polizia a Catania con un braccio ingessato al collo il 17 luglio, fosse il 18 a Palermo a imbottire con il braccio buono la 126 destinata ad ammazzare il giudice Paolo Borsellino.

Ma Avola, in realtà, ha precisato che non aveva il gesso ma un mezzo gesso, in gergo una “doccia”, ovvero una fasciatura larga che poteva sfilarsi. A luglio aveva preso una botta al polso sinistro da un motorino mentre attraversava una strada. Qualche giorno dopo l’incidente, un tecnico dell’ospedale, amico dell'organizzazione, sostituì il gesso con questa fasciatura rimovibile. In quei giorni Avola preparava due omicidi e la usava come alibi. Da sottolineare che lo stesso Gip, nell’ordinanza di rigetto, ha documentato che non c'era alcuna traccia di gesso già pochi giorni dopo l'incidente. Questo fatto è stato dedotto dalle conversazioni telefoniche tra l'ex moglie e Avola ( che, nel discutere dell'incidente, gli ha ricordato che in realtà lui non indossava quasi mai il gesso), intercettate nei mesi successivi al 23 febbraio 2021. Tali frammenti di intercettazione non erano stati inclusi nella richiesta di archiviazione. Per questo motivo è stata disposta la perizia. Il Gip ha chiesto di accertare tre questioni: se la frattura di “radio epifisi distale con frammenti angolati avambraccio sx con flc del polso”, refertatagli il 07/ 07/ 1992 presso l’ospedale Cannizzaro di Catania, fosse o meno composta; se alla luce tipo di frattura riportata da Maurizio Avola il 7 luglio 1992 fosse possibile, anche se non corretta dal punto di vista sanitario, dopo qualche giorno l’eliminazione del gesso applicato al braccio sinistro di Avola al momento delle dimissioni dall’ospedale Cannizzaro il 7 luglio 1992; se dopo la manovra ortopedica con rimessa in asse della frattura al polso sinistro di Avola, fosse possibile che quest’ultimo, dopo pochi giorni, facendo sostituire il gesso con una doccia gessata lassa e sfilabile, potesse guidare l’auto, compiere gli atti quotidiani della vita (quali il vestirsi e lo svestirsi autonomamente) o manovrare con il braccio sinistro e sollevare piccoli pesi. La risposta della perizia è stata affermativa per tutti e tre i quesiti. Ricordiamo che era stata avviata un'indagine, forse anche su input della Direzione Nazionale Antimafia, nei confronti di Avola, del suo avvocato Ugo Colonna e dei giornalisti Michele Santoro e Guido Ruotolo, autori del libro “Nient'altro che la verità”, in cui Avola è stato intervistato. Il risultato di questa indagine? Nonostante le intercettazioni e l’uso del trojan, non è emersa alcuna prova che potesse suggerire la presenza di manipolatori dietro Avola. Sia l’avvocato che i giornalisti si sono comportati correttamente. Ma nonostante ciò, una certa antimafia, che regge la sua esistenza su narrazioni avulse dalla realtà nuda e cruda, continua a parlare di depistaggio. Un'infamia che è stata evocata anche durante le audizioni in commissione Antimafia. Lo stesso avvocato Ugo Colonna, a sua richiesta per replicare alle gravi accuse dell’avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, qualche giorno fa è stato audito in commissione. Parliamo di un'audizione fiume che, documenti alla mano, ha decostruito ogni singolo passaggio. Eppure, almeno agli occhi di chi scrive, è apparsa una certa tensione che non c’è stata nelle audizioni precedenti dove – a parte l’intervento “bomba” dell’avvocato Fabio Trizzino e Lucia Borsellino – si è riaffermata la normalizzazione. E per normalizzazione si intende la difesa dello status quo.

A differenza delle altre audizioni, nel caso dell’avvocato Colonna, la presidente Chiara Colosimo lo ha interrotto. Cosa non avvenuta con l’avvocato Repici che ha potuto, giustamente, parlare liberamente. Così come è apparso singolare la difesa, sempre da parte della presidente, di un articolo di Antimafia2000, quando in realtà l’avvocato Colonna si è dovuto legittimamente difendere dalle domande suggestive apparse nel pezzo. Esiste il sacrosanto diritto di critica della stampa, così come il diritto di replica. Dispiace osservare che quando l’avvocato Repici ha accusato di depistaggio coloro che parlano della pista mafia- appalti come causa della strage ( tra l’altro consolidata in tutte le sentenze), non ci sia stata la stessa fermezza nella difesa di quei pochi giornali ( compreso Il Dubbio) che ne parlano. Qualcosa non torna, ma forse ( e si spera), si tratta di una percezione errata.