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Perché proprio gli avvocati? «Perché diversamente dalla politica non soffriamo l’ansia di ricerca del consenso. E perché nella nostra storia abbiamo sempre avuto come faro la tutela della dignità della persona». Andrea Mascherin spiega perché l’avvocatura italiana abbia deciso di assumere un’iniziativa che, se presa dalla politica, farebbe gridare alla censura: il contrasto all’odio sulla rete. «Noi non possiamo essere schiacciati da timori di impopolarità», dice il presidente del Cnf. È la convinzione che ha spinto il massimo organismo di rappresentanza dell’avvocatura italiana a riunire domani a Roma le organizzazioni forensi di tutti i Paesi del G7. Evento storico in sé, perché un “G7 delle avvocature” non si era mai tenuto. E, soprattutto, perché il tema dell’incontro, il “linguaggio dell’odio”, non è solo una questione di galateo nell’uso dei social media. È una forma di espressione che «sostituisce ogni dialettica costruttiva» e agisce dunque come un virus mortale per la stessa democrazia, osserva Mascherin. «Alimenta lo scontro tra poveri e consegna a pochi il governo di un popolo che non ha più la capacità di rivendicare i propri diritti, perde ogni senso di solidarietà, di capacità di fare massa critica, di contestare e proporre soluzioni diverse».
Presidente Mascherin, una cosa ormai è chiara: nel contrasto all’odio sui social media è accantonata ogni ipotesi di un “giudice pubblico” che selezioni d’ufficio cosa può starci e cosa no. Meno la politica stringe il campo del lecito con delle norme e meglio è. In questo vuoto, gli avvocati italiani convocano i colleghi degli altri Paesi del G7 e dicono: discutiamo e indichiamo noi il percorso.
Le sembra davvero così sorprendente che le avvocature assumano un’iniziativa del genere?
Mettiamola così: perché nessuno aveva pensato finora di chiamare in causa gli avvocati?
Io credo che si viva in una fase in cui vi è la tendenza a emarginare ogni forma di pensiero libero dai canoni che segnano l’attuale cultura dominante. Questi canoni sono legati all’economia, anzi al predominio assoluto dell’economia, per essere precisi. Sa cosa deriva dall’assioma secondo cui l’economia e il mercato senza regole dominano su tutto? La massificazione delle persone, la semplificazione e banalizzazione del linguaggio: in una parola un sistema in cui la massima aspirazione è un mon- do fatto da persone con una taglia unica. In questo genere di sistema, o le singole forze sociali affermano il proprio ruolo e se ne assumono tutte le responsabilità, o nessun altro avrà interesse a farlo.
Da come la descrive è una battaglia durissima: e lo è, tanto che la politica, in tutto l’Occidente, tende spesso a ritirarsi.
L’avvocatura, rispetto alla politica, è libera da ogni ansia di ricerca del consenso. Ha nella sua storia secolare, come faro, la tutela dei diritti fondamentali, tra cui certamente la tutela della dignità della persona. Gli avvocati possono, senza timori di impopolarità, liberamente, anche suggerire delle soluzioni sia nella loro veste di giuristi sia nella loro veste di interpreti dei diritti non negoziabili dei cittadini. E le soluzioni di cui parlo hanno a che vedere innanzitutto con un grande processo culturale.
Si tratta di fissare un galateo universale dei social media?
Si tratta di condurre una battaglia globale contro il linguaggio d’odio che non è altro se non la punta dell’iceberg di un sistema di governo dei popoli. Come avvocatura italiana, ci siamo assunti il peso e la responsabilità di questa battaglia. Naturalmente in questa maniera ci mettiamo al servizio della buona politica, che è tale perché in grado di uscire dalle logiche dominanti.
Il linguaggio dell’odio è una minaccia per la capacità dei cittadini di tenere testa ai grandi poteri dell’economia?
Il linguaggio dell’odio sostituisce ogni forma di dialettica costruttiva, elimina il principio del dubbio e svuota la coscienza, limita la consapevolezza dei propri diritti, alimenta lo scontro tra poveri e quindi consegna a pochi il governo di un popolo che non ha più la capacità di rivendicare i propri diritti. Quel popolo, soprattutto, perde ogni senso di solidarietà, qualsiasi capacità di fare massa critica, di proporre soluzioni diverse.
Vuol dire che l’odio è il virus che distrugge il sistema della rappresentanza democratica?
Sicuramente il Parlamento, la politica in generale, non hanno avuto finora la forza di opporsi a questo sistema distorto di ricerca del consenso. Finché la politica non troverà la capacità di reagire in modo unanime, trasversale, a un simile modello, paradossalmente non farà altro che incoraggiare l’utilizzo contro se stessa del linguaggio d’odio. Davvero non conviene usare l’odio come arma perché l’esito finale sarebbe la fine della politica stessa.
Si potrebbe controbattere: non si può eliminare la piazza virtuale con tutti i suoi eccessi perché, nella modernità, non è nient’altro che la vecchia piazza in cui si affacciavano le sezioni di partito.
C’è un equivoco di base, secondo cui la rete è un luogo in cui tutti possono dire quello che vogliono senza avere fonti di conoscenza certa. Ecco, questa però non è affatto una simulazione della democrazia, ma della anarchia totale. La rete deve essere valorizzata in tutti i significati positivi che può avere e che ha, ma non può essere un luogo di banalizzazione del dibattito su temi decisivi per la democrazia, per lo sviluppo dei popoli, che richiedono cultura, conoscenza approfondita, dialettica di elevata qualità.
E come si arriva a una simile civiltà della rete?
Con un percorso di assunzione di responsabilità da parte dei soggetti chiamati a essere riferimento della società: la politica ma anche l’avvocatura, sicuramente i media, sicuramente il mondo della scuola, i genitori. Ciascuno deve contribuire a promuovere un giusto utilizzo della rete: ma per farlo la prima cosa è impegnarsi nel recupero di un’idea di dialogo vero, fondato non sulle suggestioni ma sulle conoscenze, sugli approfondimenti.
Di fatto, dunque, attraverso una nuova civiltà della rete passano lo stato di salute e il futuro stesso della democrazia.
La costruzione di una società solidale e sostenibile, che abbia come pilastro la tutela dei diritti dei più deboli, non può prevedere scorciatoie, deve seguire strade maestre certamente faticose, impegnative, lunghe, non riducibili a un semplice clic, tanto per intenderci, ma che comunque garantiranno di arrivare molto più lontano.
Qual è stata la reazione delle altre avvocature dei G7, quando il Cnf ha proposto questo incontro?
Il G7 dell’avvocatura nasce dalla consapevolezza che trattiamo di uno strumento globalizzante come la rete, e dalla conseguente necessità di dare un respiro internazionale al dibattito. Le altre avvocature si sono sentite immediatamente stimolate di fronte a un’iniziativa che non ha precedenti, e hanno aderito con grande entusiasmo e interesse, fondati prima di tutto sul desiderio e la necessità di conoscere le diverse realtà nazionali, e quindi sull’opportunità di cercare percorsi comuni. Che l’iniziativa non abbia precedenti è evidente ma è chiaro che dovrà proseguire allargando la platea delle avvocature coinvolte.
Fin da subito l’iniziativa è stata concepita nell’ambito del G7?
Come Cnf abbiamo proposto di inserirla nell’ambito del G7 e va dato atto alla Presidenza del Consiglio di averne subito colto l’importanza, Immediatamente Palazzo Chigi ha deciso di assumere l’evento sotto gli auspici della presidenza italiana del G7. È evidentemente già una risposta importante rispetto alla sfida in questione, data dalla sottosegretaria alla Presidenza Maria Elena Boschi, dalla presidente della Camera Laura Boldrini e dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che interverranno domani a Palazzo della Cancelleria.
E questa è già una svolta?
Mi auguro di constatarne anche un’altra: la capacità dei media di cogliere l’importanza dell’iniziativa. Sarà sicuramente di grande interesse proporre servizi sul nome del terzogenito di William e Kate, ma io credo sia molto più importante dedicare energie informative a una battaglia contro il linguaggio d’odio.
Uno dei meccanismi patologici della comunicazione riguarda le fake news: un’affermazione è ormai credibile non se certificata ma proprio se non verificata e diffusa sulla rete fuori dei circuiti ufficiali.
Il tema della comunicazione attraverso strumenti non ufficiali si è affermato con la televisione: ‘ L’ha detto la tv’. Adesso invece si dice ‘ l’ho letto sulla rete’. Da qui l’importanza di una nuova responsabilità degli operatori della comunicazione, che deve consistere nel fatto di non pretendere di costruire la verità da soli.
Non è facile proprio perché serve uno sforzo diffuso.
Certo. Il mezzo di comunicazione digitale risponde ad aspettative di tipo commerciale: quindi da un lato gli operatori devono saper sacrificare l’aspetto commerciale, dall’altro è necessario che la domanda degli utenti cambi a propria volta, che non sia più l’attesa di un messaggio urlato, aggressivo, dell’insulto e della distruzione dell’immagine della controparte.
In rete spesso svelano un volto feroce, mostruosamente aggressivo, anche persone insospettabili: è un fenomeno nuovo?
Non mi pare. Liberarsi, almeno nell’espressione, dei freni inibitori è fenomeno che esiste da sempre. Si è sempre verificato in spazi adatti allo sfogo.
Anche negli stadi di calcio?
Esatto. L’ineccepibile professionista, il mite padre di famiglia, ma anche le donne, allo stadio dicono di tutto, minacciano morte, insultano: lo stadio è il più classico degli esempi. Un altro sport come la boxe, che potrebbe essere considerata come una disciplina nobile, produce eccitazione attraverso lo spettacolo della violenza. Il cinema ha spesso assecondato questo tipo di bisogno. La rete, in qualche maniera, è diventato il luogo principe in cui sembra possibile allentare i freni inibitori. E anzi, il vero nodo di tutto il tema attorno a cui discutiamo è proprio la convinzione che la rete sia il luogo deputato a tale abbandono. È diventato il ring d’elezione, ci si è convinti che non sia neppure sbagliato dire su un social media cose che probabilmente nella vita non si direbbero mai.
E questo complica il processo di civilizzazione?
Il grande equivoco secondo cui la rete sarebbe il luogo destinato all’espressione altrove bandita è legato a un problema culturale, di educazione. In rete dilagano i riferimenti alle pulsioni sessuali. Che si tratti di una fantasia, sana o malata, occorre capire che la rete non è destinata a questo. Ovviamente tra i soggetti chiamati a una grande responsabilità vi sono i gestori delle piattaforme, che non possono chiamarsi fuori da questo percorso educativo. È anche qui che va trovato il giusto equilibrio tra gli interessi commerciale, le grandi lobby affaristiche che girano attorno alla rete, da una parte, e un’esigenza di etica della rete dall’altra.
La difficoltà nel raggiungere questo riequilibrio non costituisce un ostacolo insormontabile?
Vede, io credo che non a caso il tema della mancanza di etica nella finanza si intrecci e si sovrapponga al tema della mancanza di etica nella rete. Se ci fosse meno da guadagnare nel favorire una finanza selvaggia e senza regole, e meno da guadagnare nel favorire un uso della rete selvaggia e senza etica, probabilmente sarebbe più facile ricondurre questi interessi in un ambito governabile. E da questo punto di vista, prima che da qualsiasi altro, credo che la politica debba riflettere e concentrare i propri sforzi.