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È l’una e 9 minuti del 26 luglio. In piazza Mastai, nel cuore di Trastevere, il carabiniere Andrea Varriale, in abiti civili, piomba in mezzo ad un gruppo di persone, dopo aver ricevuto indicazioni dal maresciallo Pasquale Sansone, suo superiore al comando di Piazza Farnese. Cerca un uomo scappato senza farsi identificare dopo aver consegnato un involucro di colore bianco, contenente una compressa di tachipirina. E lì Varriale trova Sergio Brugiatelli, che gli dice di aver subito un furto: due ragazzi gli hanno appena rubato lo zainetto.
Il compagno del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ucciso nella notte tra il 25 e il 26 luglio a Roma, si trova dunque in Piazza Mastai già un’ora prima della chiamata di Brugiatelli al 112. Un dettaglio contenuto nell’ordinanza di convalida del fermo degli americani Gabriel Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder, gravemente indiziati come autori dell’omicidio del militare, che rappresenta l’ultimo aspetto oscuro di una storia i cui tasselli sembrano non essere tutti ancora al loro posto.
Una storia che conta, tra le proprie stranezze, non solo la foto di Natale Hjorth bendato e ammanettato in caserma, che rappresenta una potente arma in mano alla difesa per invalidare le confessioni, ma anche l’utilizzo di un’arma micidiale: «un coltello a lama fissa lunga 18 centimetri, tipo “Trenknife” tipo Kabar Camillus con lama brunita modello marine con impugnatura in anelli in cuoio ingrassato e pomolo in metallo brunito», col quale Elder avrebbe ucciso il 35enne, portato in Italia, dagli Usa, in valigia, nella stiva dell’aereo. Un’arma in voga durante la seconda guerra mondiale e utilizzata anche per la caccia agli orsi. E che un giovane e ricco americano portava con sé per le strade di Roma.
Le dichiarazioni di Brugiatelli Il conto alla rovescia della tragedia parte alle 23.30 del 25 luglio. Brugiatelli si trova a Piazza Trilussa quando i due giovani americani lo avvicinano chiedendo della cocaina. Brugiatelli non ne ha, ma può procurarla. Gabe e Finn vanno a prelevare poco lontano, per poi tornare da lui e spostarsi, insieme, prima a Piazza Mastai, poi dall’altra parte di viale Trastevere, all’angolo con via Cardinale Merry del Val, 250 metri più in là. Brugiatelli ci va assieme a Gabe, l’unico che sappia parlare in italiano, mentre Finn rimane seduto su una panchina in Piazza Mastai, dove Brugiatelli ha lasciato il suo zaino, con dentro il cellulare e i documenti.
Una volta arrivati all’appuntamento, Gabe consegna 80 euro, in cambio di un involucro di carta stagnola. Ma dentro c’è aspirina. Il giovane americano non ha il tempo di reagire, perché in piazza, intanto, arrivano delle persone, a bordo di un motorino nero, che circondano lo spacciatore. Sono i carabinieri in borghese, tra i quali c’è anche Varriale. Gabe e Brugiatelli si separano. L’intermediario, poco dopo, torna in piazza ma i due sono spariti con la borsa. Così decide di tornare indietro, per chiedere aiuto proprio ai carabinieri intervenuti a disturbare il suo stesso affare. Racconta del furto, spiega, e loro «mi rispondevano di andare a fare denuncia in mattinata».
Inizia così la contrattazione con gli americani. Brugiatelli si fa prestare il telefono da un clochard e chiama il suo stesso telefonino. I due gli chiedono, in cambio dello zaino, 100 euro e un grammo di cocaina. Lui accetta, ma poi chiama il 112. Sono le 02.04, la centrale operativa dei Carabinieri manda una pattuglia. E sei minuti dopo Cerciello riceve la chiamata che lo fa arrivare, assieme al collega, a Piazza Gioacchino Belli. C’è Brugiatelli, che racconta del furto, ma non della droga.
Su richiesta dei due militari in borghese, l’uomo ricontatta il suo numero e mette i due americani in vivavoce. Fissano ora e luogo dell’appuntamento, al quale si presenteranno Cerciello e Varriale. Gli americani, nella stanza 109 dell’hotel “Le Meridien”, si cambiano, indossano le felpe ed escono. Sono le 02.48. Nel luogo dell’appuntamento pensano di trovare di nuovo Brugiatelli. Lui, invece, rimane vicino all’auto. Dagli americani ci vanno Cercielli e Varriale, che notano subito la loro presenza in via Cossa. La strada è ben illuminata, e i connotati dei due sono evidenti: 20 anni a testa circa, alti 1 metro e 80, bianchi, uno biondo, l’altro coi capelli tinti di viola, il primo con una felpa nera, l’altro con una felpa viola, entrambi con il volto in parte coperto dal cappuccio. Sono Gabe e Finn.
Il verbale di Varriale Sono «guardinghi e sospettosi», scrive Varriale, così i militari si avvicinano a passo svelto. A quel punto vengono allo scoperto: «Carabinieri», dicono tirando fuori i tesserini. Ma non hanno il tempo di fare alcun controllo: gli americani «ci aggredivano fisicamente per vincere un nostro tentativo di bloccaggio». Tutto avviene velocemente, «con estrema rapidità e violenza», dice Varriale. In quattro minuti, secondo il timing dettato dalle telecamere di videosorveglianza sparse nella zona, che hanno permesso al gip Chiara Gallo di ricostruire le fasi del delitto. Varriale viene aggredito da Natale Hjort, che si libera dalla presa «con calci, graffi e pugni». Cerciello ingaggia una colluttazione con Elder. «Fermati, siamo carabinieri, basta», dice di aver sentito gridare Varriale. 240 secondi e tutto si ferma. Perché le telecamere della zona vedono i due americani, alle 03.12, vicini al luogo dell’appuntamento e alle 03.16 scappare verso l’albergo, dopo aver imboccato via Cesi.
Varriale, a quel punto, vede Carciello perdere un fiume di sangue dal fianco sinistro, all’altezza del cuore. «Mi hanno accoltellato», dice prima di accasciarsi. Il collega contatta la centrale, mentre con le mani cerca di fermare il sangue. Arriva un’altra pattuglia, poi, in 15 minuti, l’ambulanza e dopo altri 7 minuti un’auto medica. Le provano tutte, ma Mario Cerciello Rega muore al Santo Spirito, poco dopo. Brugiatelli, da dietro l’angolo, sente solo urlare. Poi vede lampeggianti, ambulanze e Varriale che torna e gli dice: «Seguimi».
In poche ore i carabinieri arrivano agli americani. Ascoltano gente, controllano le telecamere. Li beccano in hotel, con le valigie fatte, pronti a scappare. Li portano via, in caserma. Qualcuno benda Natale Hjorn, prima dell’interrogatorio. Scattano una foto, comincia a circolare nelle chat. Ma fuori da lì nessuno, ancora, sa niente. Davanti al pm, poco dopo, i due ammettono di aver rubato lo zaino, che viene trovato in una delle fioriere dell’hotel, e di aver tentato di estorcere denaro a Brugiatelli. Ed Elder, che però non parla bene l’italiano e secondo la famiglia non ha un interprete, ammette anche di aver affondato la lama più volte nel corpo di Cerciello. Dice di non aver capito che fosse un carabiniere, piuttosto pensava ad una vendetta di Brugiatelli. Natale Hjort, invece, ammette tutte le fasi, anche di aver sentito Cerciello e Varriale identificarsi come carabinieri. Ma non ci ha creduto, giura. E non si sarebbe accorto di quei colpi mortali a pochi centimetri da lui: Elder gli avrebbe confessato di aver usato un coltello solo in albergo. La lama, dopo esser stata lavata, è stata nascosta nel controsoffitto della stanza. L’ha nascosta Gabe, afferma Finn davanti al magistrato.
L'udienza di convalida 24 ore dopo, però, Elder rimane muto. Per il gip avrebbe provocato la morte di Cerciello in modo volontario: per le modalità, il numero di colpi inferti e le zone colpite. «Il tentativo difensivo di ipotizzare una sorta di legittima difesa putativa, sostenendo di aver avuto paura per la propria vita e di essersi difeso - scrive il giudice - non appare compatibile con gli elementi di fatto emersi dalle indagini». E poi si è presentato armato, continuando a colpire il militare disarmato, anche dopo averlo sentito urlare. Natale Hjort, invece, conferma, genericamente, quanto detto prima. Per il giudice è complice: la sua presenza ha agevolato la condotta di Elder, tenendo impegnato Varriale. E di quel coltello, secondo il gip, non poteva non sapere, così come non poteva considerare l’eventualità che la vicenda si concludesse con la morte di qualcuno. Il giudizio finale è impietoso: totalmente incapaci «di autocontrollo e capacità critica», i due non hanno dimostrato «di aver compreso la gravità delle conseguenze delle proprie condotte, mostrando un’immaturità eccessiva anche rispetto alla giovane età».