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Mentre in Parlamento il governo continua a evitare le domande delle opposizioni, decise a scoprire chi, come e perché ha fatto venire fuori un filmato della giudice Iolanda Apostolico - “colpevole” di aver disapplicato in aula il decreto Cutro e di aver partecipato, cinque anni fa, ad una manifestazione in difesa dei diritti umani mentre i migranti rimanevano chiusi per volere del ministro Matteo Salvini per giorni in una nave -, in campo neutro, senza contraddittorio, è la toga prestata alla politica e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, a bacchettare le toghe sul loro protagonismo e sui margini d’azione concessi.
Chiarendo un punto: il compito dei giudici non è quello di disapplicare le norme non “gradite”, ma valutarne la compatibilità con la Costituzione e le norme europee e seguire la via della questione di legittimità. Perché è la politica, e non la magistratura, a decidere come gestire i fenomeni sociali. Mantovano ha pronunciato la sua arringa in difesa del governo a Palermo, al convegno della Corte dei conti sulla giustizia, alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella.
Pur senza mai nominare la nuova nemica pubblica numero uno del governo, la giudice Apostolico, il riferimento è chiarissimo: «Non compete alle Corti né l'invenzione del diritto, né la teorizzazione della maggiore idoneità della procedura giudiziaria a comporre quei conflitti che richiedono esercizio di discrezionalità politica - ha sottolineato Mantovano -, né la sostituzione a organi nazionali o sovranazionali nel qualificare le relazioni fra gli Stati; e ciò per doveroso rispetto sia dei parametri costituzionali, sia del mandato ricevuto da chi, a scadenze periodiche, esercita il diritto di voto. Compete alle Corti esprimersi “in nome del popolo italiano”, non “invece del popolo italiano”». Ma non solo: «Il parametro per il giudice - ha aggiunto - non è la condivisione o la non condivisione dei contenuti della norma che è chiamato ad applicare: a meno che non dubiti motivatamente della sua coerenza con la Costituzione. E se nel nostro ordinamento il controllo di costituzionalità non è rimesso a un’iniziativa diretta e diffusa da parte del giudice, parimenti non può esistere una verifica diffusa della conformità delle leggi alla normativa europea.
Il potere-dovere di disapplicazione di una norma nazionale contrastante con il diritto europeo deve intendersi limitato ai soli casi di contrasto diretto e immediato tra i due precetti tale da rivelarne l’incompatibilità. Non può invece trasmodare in una revisione da parte dei giudici nazionali dell’applicazione della normativa interna sulla base di incerte e opinabili interpretazioni della relazione tra le due fonti». Tocca alla politica, «la funzione di confrontarsi col reale, non già per recepire e regolare tutto quello che si presenta, ma per coglierne l’essenza, per affiancarla ai valori di riferimento e per trarne le scelte necessarie assumendone la relativa responsabilità, pur essa di natura politica». Dunque, «la gratitudine verso le Corti sarà tanto più grande quanto più il servizio che esse rendono sarà rispettoso dei confini delle proprie competenze e delle attribuzioni affidate agli altri poteri. Ciò anche quando l'indirizzo politico degli organi democraticamente rappresentativi sia diverso da quello auspicato dai giudicanti». Ai giudici, dunque, non resta che una possibilità: in caso dubitino motivatamente della coerenza di una norma con la Costituzione, «la strada obbligata è non già la disapplicazione, bensì la questione di legittimità». È suo, dunque, l’attacco più duro, mentre non accenna a placarsi la polemica.
Parole pronunciate mentre a Catania e Potenza il decreto Cutro viene nuovamente disapplicato, in quanto considerato in contrasto proprio con la Costituzione e le norme sovranazionali. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha preferito solo sfiorare l’argomento, concentrandosi più sull’esigenza di accelerare i tempi della giustizia, per garantire l’utilizzo dei fondi del Pnrr ed evitare di perdere punti di pil, facendo giusto un rapido passaggio sull’esigenza che «il cittadino si senta protetto da una giurisdizione rapida ed effettiva» e «da una certezza del diritto dove non sono ammissibili interpretazioni arbitrarie o creative.
Su questo quello che ha detto il collega sottosegretario Mantovano mi trova d’accordo al cento per cento», ha dichiarato aggiungendo un passaggio al discorso originale. E a dare manforte ci ha pensato anche il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli: «È proprio dallo sguardo del cittadino che passa la legittimazione esterna, che si affianca alla legittimazione interna (di buon governo delle norme) e che si fonda sull’affidamento da parte del cittadino dell’indipendenza di giudizio del suo giudice - ha dichiarato -. Il cittadino non guarda infatti all’indipendenza del giudice in quanto persona, ma al giudice in quanto espressione di giudizio terzo e imparziale. L’indipendenza ha un contenuto concreto ed è in relazione al giudizio, non è una astratta petizione di principio. Possiamo dire che il valore da perseguire è l’indipendenza di giudizio del giudice, non solo la sua formale indipendenza ordinamentale».