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LUIGI MANCONI PROFESSORE
Luigi Manconi, docente di Sociologia dei Fenomeni Politici, Presidente di “A Buon Diritto Onlus”, è stato presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Nel suo libro più recente - “La scomparsa dei colori”, edito da Garzanti - racconta la progressiva perdita della vista e la cecità. Ma oggi con lui vogliamo parlare di uso e abuso della forza da parte di chi dovrebbe garantire la nostra sicurezza, a prescindere dalla nostra innocenza o colpevolezza, nelle regole di uno Stato di Diritto.
In queste settimane si è discusso di scudo penale per le forze di polizia nei seguenti termini: nel caso in cui le azioni del poliziotto e del carabiniere avvengano nell'ambito del perimetro delle cause di giustificazione disciplinate dal codice penale di rito, il vaglio del magistrato abbia una procedibilità diversa rispetto all’iscrizione immediata nel registro degli indagati. Solo se ci sono elementi per cui il poliziotto o il carabiniere violano la legge o il perimetro delle cause di giustificazione, deve essere iscritto nel registro degli indagati, ma non prima. Cosa ne pensa?
Osservo una palese violazione del principio di eguaglianza, a causa dell’introduzione, solo per questi pubblici agenti, di un regime processuale speciale, non previsto per alcun altro corpo o organo dello Stato nemmeno per gli appartenenti ai Servizi Segreti che pure godono di particolari tutele. Inoltre, verrebbe incrinato il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, che riserva al pubblico ministero il potere (e il dovere) di condurre le indagini, disponendo della polizia giudiziaria. Infine, affidare una fase di verifica della fondatezza della notizia di reato alla stessa amministrazione da cui dipende l’indagato significherebbe il venire meno della terzietà necessaria all’accertamento delle responsabilità penali. Oltretutto, se il fine della norma si identifica nella necessità di evitare le iscrizioni nel registro degli indagati nei casi di “atti dovuti”, è evidente come una simile previsione rischi di prestarsi a veri e propri abusi. Se davvero si volesse affidare la prima fase delle indagini (come una sorta di pre-istruttoria) al ministero dell’Interno, sottraendola almeno in parte al pubblico ministero, per poi investire il procuratore generale solo nel caso emergessero responsabilità, si porrebbe un ulteriore, elevatissimo, rischio di incostituzionalità.
I fatti del G8 di Genova hanno segnato uno spartiacque nella storia della polizia o hanno semplicemente fatto emergere quanto già si sapeva?
È sembrato che potesse costituire uno spartiacque, ma così non è stato. Ricordo che solo diciassette anni dopo, il capo della polizia Franco Gabrielli riconobbe che si era trattato di una gestione “catastrofica” dell'ordine pubblico. Ma, pare che quella lezione non abbia sollecitato alcuna riforma: della mentalità collettiva, dell'istituzione-polizia, né delle sue regole di ingaggio né, infine, dei suoi processi di formazione e istruzione anche tecnica.
Lei da decenni con l’Associazione che presiede ha seguito molti casi di persone abusate dalle forze di polizie. Quali sono stati quelli che l’hanno più colpita?
Tutti. Ma se proprio devo indicarne uno in particolare, penso alla morte di Giuseppe Uva, fermato illegalmente e trattenuto in una caserma dei carabinieri di Varese, e qui sottoposto a violenze. Dopo tre gradi di giudizio, risoltisi negativamente, e in una Varese generalmente sorda alla tutela delle garanzie per i più deboli, nel 2021, infine, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha riconosciuto ammissibile il ricorso. E ciò grazie alla tenacia della sorella Lucia Uva e dell'avvocato Fabio Ambrosetti. Voglio ancora sperare.
Secondo lei questi episodi ma anche quelli più recenti sono solo frutto di azioni delle cosiddette mele marce o c’è un serio problema culturale all’interno delle forze dell’ordine?
Quella delle mele marce è una immagine, prima che falsa, insensata logicamente, dal momento che, notoriamente, le mele marce sono destinate inevitabilmente a infettare quelle considerate sane. Di più, le attività illegali della piccola minoranza che si macchia di crimini è troppo spesso sostenuta dalla solidarietà corporativa, si dovrebbe dire “omertà”, di molti colleghi e, spesso, di ufficiali di grado più alto. La vicenda di Stefano Cucchi è esemplare di tutto ciò. In termini generali si può dire che, poco, pochissimo si fa per far crescere la coscienza democratica degli appartenenti alle forze di polizia. Oltre che la preparazione tecnica capace di ridurre al minimo il ricorso alla violenza nell'attività di repressione, quando necessaria
Se c’è questo problema, secondo lei polizia e carabinieri ne sono consapevoli e stanno facendo qualcosa per cambiare oppure no?
Sono molto pessimista. Nel corso degli ultimi venti anni ho seguito decine di vicende di abusi, illegalità e violenze da parte di appartenenti alla polizia di stato, all'arma dei carabinieri e alla polizia penitenziaria. Sempre, sia chiaro, a opera di minoranze di quei corpi ma sempre con scarsissima capacità di autocritica e di autoriforma. Ho incontrato una decina di massimi responsabili di quei corpi, disposti a chiedere scusa e a promettere giustizia, ma sempre e sole dopo: dopo, cioè, che la magistratura aveva rivelato se non già sanzionato i reati. Non un capo della Polizia o un comandante generale dell'Arma dei Carabinieri e non un ministro dell'Interno che, al momento di assumere il comando, abbia mai annunciato un serio programma di riforma interne e lo abbia intrapreso.
Di abuso della forza si parla anche rispetto alle carceri. Eppure il ddl sicurezza vuole punire persino la resistenza passiva. Qual è il suo pensiero su questo?
Se non sbaglio, sono almeno duecento i poliziotti indagati per lesioni gravi o torture e alcune decine i procedimenti giudiziari in corso. Ancora una volta una piccola minoranza rispetto ai 31 mila appartenenti alla Polizia penitenziaria. Ma ciò che è grave è che tali fatti sembrano riprodursi all'infinito, e che, come dicevo, non si registra mai una reazione delle mele sane rispetto a quelle marce. Ed è rarissimo che le denunce partano dall'interno: da un poliziotto, da un cappellano, da un comandante e nemmeno da un direttore. Un quadro davvero desolante.
Lei aveva elaborato un disegno di legge sul reato di tortura. Poi abbandonò l’Aula nel momento del voto perché quel testo era stato completamente svuotato. Che bilancio fa della efficacia di quel reato in questi anni e come andrebbe migliorato?
Quel disegno di legge non era stato, come dice lei, completamente svuotato, ma certamente limitato in misura rilevante. Non partecipai al voto finale, ma spiegai che, se fosse mancato un solo voto all'approvazione, mi sarei recato in Senato anche in ginocchio. Quella normativa, anche se molto carente, ha avuto un ruolo assai importante.