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L’ha detto Laura Pausini, arringando i suoi fan a concerto, alla vigilia della sentenza su Filippo Turetta: «Dare l’ergastolo a un uomo che uccide una donna è un segno importante». E chi oserebbe contraddirla? L’ha detto Paolo Di Paolo, censurando l’invito a “Più libri, più liberi” di Leonardo Caffo, accusato dalla sua ex compagna di molestie e violenza: «Era inopportuno e non c’entra il garantismo». E molti suoi colleghi, scrittori e intellettuali, lo hanno seguito a ruota.
L’ha detto anche Gino Cecchettin dopo il paragone tra Turetta e Pablo Escobar, avanzato dal legale del giovane per negarne la somiglianza con il boss della droga: «Mi sono nuovamente sentito offeso e la memoria di Giulia umiliata». E nel dibattito pubblico ha preso a vacillare l’idea che, in casi estremi come questo, il diritto di difesa debba comunque essere garantito all’imputato. Dobbiamo convenire con queste censure? Oppure, al netto dello sdegno che proviamo di fronte all’atroce delitto di Giulia, dobbiamo chiederci se il nostro rapporto con la morale stia cambiando anche quello con la libertà?
A Reggio Calabria la scorsa settimana una Corte d’Assise d’Appello ha punito con l’ergastolo l’ex fidanzato di Lorena Quaranta, uccisa a Messina nel 2020. L’imputato era stato già condannato alla pena perpetua in primo e secondo grado a Messina, ma la Cassazione aveva annullato la sentenza, negando la qualifica del delitto di genere e chiedendo a un’altra Corte, quella di Reggio, di valutare la concessione delle attenuanti generiche, connesse allo stress della coppia nel periodo del Covid.
Erano seguite un’interrogazione indignata di una parlamentare reggina, che aveva definito inaccettabile il nuovo processo, e l’irrituale richiesta di una relazione avanzata dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, alla Corte. Che ha replicato a Reggio il copione di Messina, andando ben oltre la richiesta di 24 anni di carcere proposta dalla procura generale e infischiandosene dei rilievi della Cassazione. Perché l’ergastolo è ormai «pena unica» nel diritto penale di piazza: lo invoca l’opinione pubblica, lo sbandiera la politica, lo «sussurra» il guardasigilli, e le Corti si adeguano. Con buona pace del codice, che subisce un’abrogazione de facto.
Nel ventennio che va tra il 1955 e il 1974, a fronte di una media annuale di 490 omicidi, in Italia venivano sentenziati 4,5 ergastoli all’anno. Nei vent’anni tra il 2000 e il 2019, a fronte di una media di omicidi solo appena superiore (551), gli ergastoli per anno sono diventati 138,5, cioè 25 volte di più (i dati sono riportati da Davide Galliani nel volume Ergastolo e diritto alla Speranza, Giappichelli editore, 2024, pag. 321).
Un fenomeno di questa entità è una rivoluzione silente ma progressiva, realizzata in un rimbalzo di reazioni tra la piazza e il palazzo. In un Paese in cui il consenso sta diventando la fonte di legittimazione dell’azione penale, l’intersezione tra ciò che si dice nel dibattito pubblico e ciò che si delibera nelle corti giudiziarie è costante. Il rischio è che un’istanza di risarcimento, peraltro legittima, delle vittime e delle donne, concimi sempre di più una risposta penale giustizialista e securitaria, che erode alla radice le garanzie dell’ordinamento liberale, dalla presunzione di innocenza al diritto di difesa.
Pur con tutta l’adesione al dolore dei familiari colpiti dai lutti dei femminicidi, non si può cedere alla tentazione di fare del diritto penale una legge del taglione. Perché la cattiveria dei killer non è l’unica unità di misura della giusta pena. Ce n’è almeno un’altra, nella logica della laicità costituzionale, ed è la rieducazione del condannato. Qual è il tempo sufficientemente lungo per maturare la piena coscienza della gravità del gesto, ma non tanto lungo da impedire la concretezza di un recupero sociale?
Anche di fronte alla ferocia di Filippo Turetta, è questa la domanda che la giustizia deve porsi per salvare, dopo la distruzione immane che si è prodotta, l’unico valore salvabile: la speranza. Per lo stesso motivo è necessario disarmare i pregiudizi di certi vati del moralconformismo d’élite, che orientano il dibattito pubblico, animati talvolta dal fanatismo ideologico, talaltra dalla furbizia di mettersi in mostra. Se l’ergastolo diventa un valore, come vorrebbe Laura Pausini, la battaglia di emancipazione e di libertà delle donne si riduce a una retorica vittimaria, che assume l’irredimibilità del male come un dogma e nega la speranza.
Allo stesso modo non si può sostenere, come fa Paolo Di Paolo, che l’inopportunità di un invito non tradisca il garantismo, perché il garantismo è protezione reputazionale del cittadino accusato, e tuttavia innocente prima che un giudicato provi la sua colpevolezza. Se a un intellettuale sfugge un principio così fondativo dello statuto della libertà, non ci si può stupire che l’opinione pubblica si radicalizzi. E che il giustizialismo diventi sempre di più la domanda che la società pone al potere giudiziario. Con l’effetto di non accorgerci che stiamo precipitando in una democrazia dell’ergastolo.