A dieci anni dalla (fu) inchiesta Mafia Capitale, l’ex imprenditore Salvatore Buzzi annuncia una causa civile contro gli amministratori giudiziari delle cooperative coinvolte, tra cui una gestita da lui, la coop 29 Giugno, nata oltre trent’anni fa per il reinserimento sociale dei detenuti. Un film già visto troppo spesso, come raccontato sulle pagine di questo giornale: imprese e aziende rovinate dopo essere finite in mano a degli amministratori designati dai Tribunali.

Ma ripercorriamo brevemente la vicenda: il 2 dicembre 2014 scattarono le manette contro Buzzi e l’ex Nar Massimo Carminati. Con loro vennero arrestati anche diversi esponenti di cooperative romane, insieme a dirigenti di Ama, del Campidoglio e poi politici locali del Pd e del Pdl. A capo dell’inchiesta l’ex procuratore Giuseppe Pignatone: per lui la criminalità mafiosa si era insediata nel Comune capitolino.

Poi la Cassazione smontò letteralmente il teorema accusatorio, derubricando i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime. Intanto, come ha denunciato Buzzi dalla sua pagina Facebook, «le cooperative sociali furono disarticolate e la cooperativa 29 Giugno con le sue consociate che contava 1300 dipendenti con un fatturato di 70 milioni e un patrimonio di 30 fu commissariata e affidata a 3 amministratori giudiziari che con il modico compenso di 3 milioni di euro ciascuno sono riusciti a depauperarla in poco più di tre anni, riconsegnandola ai soci, nel 2018, in condizioni talmente disastrose che hanno dovuto metterla in liquidazione. Al termine dei processi di mafia non è rimasto nulla».

Per questo 115 ex soci del gruppo 29 Giugno, ciascuno versando la propria quota, hanno depositato, tramite i propri legali Nicola Santoro, Sonia Sommacal e Alessandro Tricoli presso il Tribunale civile di Roma l’atto di citazione in giudizio contro gli amministratori giudiziari delle cooperative, «per far accertare la loro responsabilità per colpa grave e per chiedere la condanna degli stessi al risarcimento del danno», ha scritto sempre Buzzi. Vediamo nel dettaglio, in base alle dichiarazioni di Buzzi.

Innanzitutto «dal confronto tra la documentazione inerente la situazione economica, contabile e fiscale della cooperativa – sia antecedente che successiva al sequestro – emergono senza dubbio gravi anomalie di gestione ad opera degli organi nominati nella procedura di sequestro, tanto da aver comportato negli anni uno squilibrio finanziario pari ad euro 14.502.172,00 a cui le cooperative non sono state in grado materialmente di fare fronte e che ne ha determinato la conseguente messa in liquidazione».

Inoltre «a questo squilibrio devono aggiungersi le somme che le cooperativa, all’epoca dell’amministrazione giudiziale, hanno corrisposto, a titolo di emolumenti, pari ad euro 1.000.000,00 in acconto oltre Iva e Cpa per ciascun amministratore ed euro 67.200,00 a titolo di rimborso spese coadiutori per ciascuno degli otto coadiutori incaricati; somme evidentemente non dovute in considerazione dell’inequivocabile inadempimento del mandato gestorio che ha condotto le cooperative alla cessazione della loro attività e al deperimento dei beni aziendali».

A ciò si aggiunga che «al momento dell’apertura dell’amministrazione giudiziaria la cooperativa vantava un utile di esercizio pari ad euro 1.099.686,00 e appena due anni dopo, ossia nel 2016, veniva posta in liquidazione avendo cumulato perdite per euro 1.044.923,00». Insomma, per i ricorrenti e i loro avvocati «emerge la responsabilità a carico dei convenuti, in quanto non solo non incrementavano la redditività delle società sequestrate, ma ne determinavano addirittura la liquidazione per sopravvenuta impossibilità di far fronte ai debiti contratti nel periodo di amministrazione giudiziaria».

Intanto oggi Buzzi, condannato in via definitiva a 12 anni e 10 mesi di carcerazione, è un libero sospeso. Si sta curando presso una comunità terapeutica per disintossicarsi dall’alcol dipendenza. Ha un residuo pena di 4 anni e sei mesi: a febbraio il Tribunale di Sorveglianza di Roma stabilirà se potrà continuare a scontare la pena in ambiente terapeutico, dopo che il suoi legali, Alessandro Diddi e Edoardo Albertario, avevano presentato, e vistosi accolto con rinvio, un ricorso in Cassazione contro l’arresto avvenuto in una comunità terapeutica calabrese nel settembre 2022.