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GIOACCHINO NATOLI EX MAGISTRATLO
L’ex procuratore di Palermo Gioacchino Natoli è indagato dai pm di Caltanissetta. L’accusa? Aver insabbiato un’indagine cruciale che avrebbe dovuto confluire nel procedimento scaturito da “Mafia-appalti”, il dossier redatto dagli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sotto la supervisione di Giovanni Falcone. Paolo Borsellino non solo considerava quel dossier importante, ma lo collegava direttamente alla strage di Capaci.
Aspetto emerso anche dall’ultima intervista rilasciata allo scrittore Luca Rossi. E i verbali desecretati dalla commissione Antimafia, presieduta da Chiara Colosimo, rivelano come negli ultimi giorni di vita il giudice trucidato in via D’Amelio stesse lavorando in maniera capillare sugli appalti. Secondo il pool che indaga sulla causa della strage di via D’Amelio, guidato dai sostituti della procura di Caltanissetta Claudia Pasciuti e Davide Spina, Natoli avrebbe agito in concorso con l’ex procuratore di Palermo Pietro Giammanco (nel frattempo deceduto) e con l’allora capitano della Guardia di Finanza Stefano Screpanti.
L’accusa sostiene che l’ex pm avrebbe aiutato a eludere le indagini sui mafiosi Antonino Buscemi e Francesco Bonura, l’imprenditore e politico Ernesto Di Fresco (dal dossier dei Ros emerge che si incontrava con il boss Angelo Siino) e i vertici del Gruppo Ferruzzi, ovvero gli imprenditori Raul Gardini, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini. In particolare, al magistrato viene contestato di aver condotto, nell’ambito del procedimento 3589/1991 aperto a Palermo dopo l’invio delle carte da Massa-Carrara su presunte infiltrazioni mafiose nelle cave toscane, una “indagine apparente”. Come? Richiedendo autorizzazioni per intercettazioni telefoniche di brevissima durata e su un numero limitato di utenze, compromettendo così l’efficacia dell’inchiesta. Inoltre, avrebbe disposto, d’intesa con Screpanti, di non trascrivere conversazioni cruciali che rivelavano il coinvolgimento di Di Fresco a favore di Bonura e un possibile “aggiustamento” di un processo pendente.
Il contesto è quello degli inizi degli anni 90. Mentre il dossier “Mafia-appalti”, che già menzionava la Calcestruzzi Spa (colosso delle opere pubbliche controllato dal gruppo Ferruzzi-Gardini e, secondo il pentito Leonardo Messina, da Totò Riina), era stato depositato, giunse alla Procura di Palermo una nota firmata da Augusto Lama, allora sostituto a Massa Carrara. Grazie all’indagine dell’ex Guardia di Finanza Franco Angeloni, la nota indicava i fratelli Buscemi e Bonura. Cosa avevano scoperto? Il legame tra la mafia siciliana e il gruppo Ferruzzi, proprietario della Sam-Imeg, che controllava il 65% delle cave e della lavorazione del marmo di Carrara.
All’epoca, Gardini ottenne un’offerta di favore dall’Eni. Il primo grande affare fu un contratto per la desolfazione delle centrali Enel, del valore di tremila miliardi di lire. Ma la situazione a Carrara precipitò. Antonino Buscemi prese il controllo delle cave, affidandone la gestione al cognato Girolamo Cimino e a Rosario Spera. I siciliani imposero condizioni vessatorie ai cavatori, che trovarono come unico difensore il loro presidente onorario, il comandante partigiano Memo Brucellaria. Fu allora che il procuratore Augusto Lama iniziò a indagare.
Natoli, incaricato di occuparsi della nota, ne chiese l’archiviazione. Non solo: firmò il provvedimento per smagnetizzare le bobine delle intercettazioni e distruggere i brogliacci. L’ex pm ha sostenuto che la frase “e la distruzione dei brogliacci” fosse stata aggiunta dopo il deposito dell’atto. La Procura di Caltanissetta, tuttavia, lo accusa di calunnia per aver incolpato ingiustamente Damiano Galati, responsabile amministrativo del Centro Intercettazioni. Fortunatamente, i funzionari non diedero seguito alla richiesta di smagnetizzazione. Il Gico di Caltanissetta, reparto d’élite della Gdf, ha potuto così recuperarle e riascoltare tutte le intercettazioni.
Le accuse a Natoli non si fermano qui. Secondo i pm nisseni, non avrebbe aperto indagini su Luciano Laghi e Claudio Scarafia, nonostante fossero emersi legami con Bonura. Avrebbe inoltre chiesto l’archiviazione del procedimento senza approfondimenti e senza acquisire il materiale concernente le indagini effettuate dalla Procura di Massa-Carrara. I reati, sempre secondo l’accusa, sarebbero stati commessi con “l’aggravante di aver agito al fine di favorire l’associazione mafiosa” con riferimento agli interessi della stessa nell’aggiudicazione degli appalti, operazione gestita dal famoso tavolino: mafia, imprenditori nazionali e politica.
L’ex pm di Massa-Carrara Augusto Lama ha recentemente affermato che una maggiore attenzione agli esiti della indagine apuana e, soprattutto, al rapporto dei Ros, e un conseguente approfondimento investigativo, che lui non riuscì a svolgere, avrebbero consentito di avviare l’inchiesta sulla questione “Mafia-appalti” con qualche anno di anticipo.
Un dettaglio cruciale emerge dalle audizioni di Natoli: nell’aprile 1992, una seconda nota inviata da Lama fu “intercettata” da Paolo Borsellino, che la consegnò ai colleghi Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, anziché a Natoli. Perché? Probabilmente perché erano i magistrati titolari del dossier “Mafia-appalti”, che già indicava gli affari dei Buscemi con Ferruzzi-Gardini. Non dimentichiamo che in quel periodo il gruppo Ferruzzi – in pochi anni acquisito e trasformato da Gardini in un gruppo prevalentemente industriale –, unito con la Montedison, divenne il secondo gruppo industriale privato italiano, con ricavi per circa 20mila miliardi di lire, con 52mila dipendenti e più di 200 stabilimenti in tutto il mondo. Gruppo che poi finirà nel ciclone di tangentopoli.
Nel ’93, Gardini si suiciderà, anche se rimane il fondato dubbio di un omicidio. E forse non è l’unico strano suicidio. Basti pensare al libro dell’allora magistrato Mario Almerighi, nel quale, attraverso un’attenta analisi tecnico-giuridica e l’attestazione dei fatti, ha sollevato dubbi non solo su Gardini, ma anche sui suicidi di Sergio Castellari, direttore delle Partecipazioni statali, e Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni.
Borsellino conosceva bene il dossier, avendone richiesto copia quando guidava la Procura di Marsala. Il suo interesse emerge, dalle carte desecretate, con chiarezza. L’ultimo suo atto, il giorno prima di essere assassinato, fu prendere il fascicolo relativo a Luigi Ranieri, imprenditore ucciso dalla mafia per essersi opposto al condizionamento mafioso degli appalti. Ma Borsellino aveva anche atti riguardanti la società Sat, intercettazioni telefoniche, verbali d’interrogatorio e materiale sequestrato a seguito dell’omicidio. Borsellino cercava collegamenti. Da notare come risultasse anche il fascicolo processuale relativo al collaboratore Aurelio Pino, contenente diverse note. Chi è? Si tratta dell’imprenditore che il 21 febbraio 1989 riferì ai carabinieri la strategia di Cosa nostra per il controllo degli appalti, specificando che i gruppi mafiosi che gestivano e controllavano gran parte delle gare in provincia di Palermo erano essenzialmente due: il gruppo Modesto e il gruppo Siino, sotto la tutela delle ”amiglie” Salamone e Brusca, le quali avevano come referenti assoluti Riina e Provenzano.
Borsellino cercava collegamenti, aveva anche parlato con Antonio Di Pietro. Diceva di fare presto. Sarà un caso che entrambi, come risulta dall’informativa dei Ros di Milano, erano nel mirino mafioso? Ricordiamo che Borsellino non aveva la delega per le indagini palermitane. L’avrà solamente la domenica mattina del 19 luglio tramite una singolare telefonata da parte di Giammanco. Il legame tra tangentopoli e l’indagine “Mafia-appalti” diventa sempre più evidente. Qualcosa di grosso bolliva in pentola, e Borsellino probabilmente lo intuì. Così come intuì (leggasi verbale di luglio 1992 della sorella di Falcone al Csm) che aveva scoperto qualcosa di terribile in procura. Il “nido di vipere”.