Non è la prima volta che un governo critica talune decisioni dei giudici, né la prima volta che risponde con nuovi decreti per tentare di arginare i contrasti giurisprudenziali e vanificare le ordinanze. Non si tratta quindi di un unicum, ma di una costante, che si manifesta quasi sempre quando sono in gioco i diritti fondamentali.

Parlare di assalto della destra alla magistratura, o addirittura di trama eversiva, rischia di essere meramente strumentale e di non considerare che nel passato è successo di peggio, come nel caso delle cosiddette "scarcerazioni" ai tempi dell'emergenza Covid e della decisione della Consulta sull'illegittimità costituzionale dell'ergastolo ostativo. In quei casi, non solo intervenne l'allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede con decreti che fecero rientrare quasi tutti i detenuti (vanificando così le ordinanze dei magistrati di sorveglianza), ma addirittura – nel caso della Consulta – si evocò la "trattativa Stato-Mafia". Accuse gravi e infamanti.

Contrasti del genere sono sempre di natura squisitamente politica. Anche le decisioni dei magistrati, in fondo, riflettono spesso sensibilità politiche diverse: c'è chi ha una visione giuridica più liberale (quella che rispecchia la linea editoriale di questo giornale) e chi è più conservatore. Basti pensare alla visione del carcere: ci sono giudici che hanno una visione retributiva, e altri orientati verso quella rieducativa. Gli avvocati lo sanno bene, quando si scontrano con decisioni di magistrati di sorveglianza che non tengono conto degli orientamenti della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.

In passato, solo poche flebili voci si scandalizzarono quando un intero governo aveva fatto "fuoco e fiamme" contro la Corte Costituzionale sulla sacrosanta decisione dell'abolizione dell'ergastolo ostativo. Alcuni magistrati e la commissione antimafia guidata da Nicola Morra, quando ci furono le "scarcerazioni" (in realtà, trasferimenti in detenzione domiciliare) per rischio Covid a causa della salute precaria dei detenuti, arrivarono persino a paventare la "trattativa Stato-Mafia". Di fronte a queste gravissime insinuazioni, l'Associazione nazionale dei magistrati non intervenne e il Csm rimase muto. Nessuna indignazione si levò, né a destra né a sinistra, nonostante fosse stato messo in atto un gravissimo attacco, politico e mediatico, nei confronti dei magistrati di sorveglianza.

Vale la pena ricordare che nel 2019 la Consulta, grazie al ricorso dei magistrati di sorveglianza, ha sancito l'incostituzionalità dell'ergastolo ostativo. Una decisione storica che ha riaffermato lo Stato di Diritto. Non solo fu impropriamente tirato in ballo Giovanni Falcone, che mai aveva teorizzato la preclusione assoluta dei benefici, ma l'allora ministro della Giustizia Bonafede, esponente del Movimento 5 Stelle, si disse indignato e chiese a tutta la politica di far fronte comune contro quella decisione.

Come non ricordare quando, nel 2021, in commissione giustizia, l'allora procuratore Roberto Scarpinato (oggi senatore M5S), oltre a riferire di un presunto summit – Il Dubbio verificò che ciò non accadde e quindi il magistrato probabilmente fece confusione – in cui Bernardo Provenzano avrebbe rassicurato tutti sulla pazienza necessaria in attesa dello smantellamento della normativa sull'ergastolo ostativo, affermò – come riportò Luciano Capone de Il Foglio – che le decisioni della Corte Europea e della Corte costituzionale non erano "culturalmente ed eticamente condivisibili".

Scarpinato le definì un caso di "decisionismo politico" frutto di una "omologazione al pensiero unico neoliberista oggi dominante". A volte l'assalto alla magistratura non avviene solo dalla politica, ma anche dall'interno. Peccato che anche in quell'occasione il Csm non sia intervenuto per tutelare i giudici.

Nel 2020 è accaduto dell'altro ancora. A seguito dell'indignazione, mediaticamente amplificata, per la presunta "scarcerazione di boss mafiosi" (che in realtà boss non erano: su 700 casi, solo due), il ministro Bonafede si affrettò a varare un decreto che prevedeva – tra le altre cose – un meccanismo automatico di rivalutazione del beneficio penitenziario concesso per soggetti condannati per alcuni gravi reati. Un provvedimento che, di fatto, violava il principio della separazione dei poteri, nella misura in cui l'intervento legislativo costituiva un'illegittima invasione delle prerogative di apprezzamento in concreto del caso sottoposto al vaglio giurisdizionale, istituzionalmente riservate al potere giudiziario. Eppure nessuno gridò all'eversione o all'assalto della Costituzione. Il decreto vanificò diverse ordinanze, costringendo diversi detenuti a rientrare in carcere. Alcuni di loro morirono, ma questo sembrò importare poco.