IL RETROSCENA

La speranza è che alla fine la paura di tornare a casa prevalga sullo spirito barricadero. Su questo puntano i vertici pentastellati per disinnescare la “bomba Mes” posta sotto la poltrona di Giuseppe Conte. Il clima resta teso, sia chiaro, ma uno a uno i deputati- e soprattutto i senatori- grillini firmatari del documento bellicoso contrario alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità sembrano recedere verso più miti consigli. Si dichiarano fiduciosi in un lieto fine molti dei parlamentari “duri e puri”, come i senatori Fabio Di Micco e Luisa Angrisani, entrambi sottoscrittori della lettera politicamente “minatoria” al presidente del Consiglio, adesso meno convinti dell’inevitabilità dello scontro.

Si cerca un compromesso nel Movimento 5 Stelle per evitare di mandare tutto all’aria. Fronte più avanzato del confronto: la risoluzione di maggioranza da votare in Aula domani, subito dopo le comunicazioni del premier sulla riforma del Fondo salva Stati. I grillini sono in assemblea permanente per tentare di stilare un testo da sottoporre agli alleati che salvi però l’onorabilità della battaglia pentastalleta. Il sogno è che Pd e Italia viva accettino di specificare nella risoluzione l’indisponibilità italiana ad attivare il Mes, seppur riformato. Ma dem e renziani non sembrano affatto intenzionati a cedere su un punto così delicato solo per far piacere a Di Maio e compagni, in questo momento lacerati da una guerriglia interna. Ai cinquestelle, probabilmente, non resterà che ingoiare un accordo al ribasso con gli alleati e rimandare la resa dei conti in maggioranza a data da destinarsi in nome di un bene supremo: la sicurezza del proprio scranno e il futuro di Conte. «È in corso un confronto a tratti serrato ma sempre costruttivo, dove a prevalere è la volontà di dialogo. Si sta lavorando per fare una sintesi di tutti i contributi», annunciano in serata i capigruppo M5S di Camera e Senato Davide Crippa ed Ettore Licheri, convinti che alla fine il buon senso prevarrà, che tutto questo rumore sia stato solo «un po’ di caciare», per usare le parole di Roberta Lombardi.

Anche perché, a sorpresa, Alessandro Di Battista, ha deciso di dare una mano, suo malgrado, ai governisti del partito. Da giorni l’ex deputato sarebbe entrato in azione per raffreddare il clima, contattando molti colleghi di “fronda” per invitarli a deporre le armi in una guerra destinata a fare “troppi morti”. Dibba non vuole farsi certo assegnare l’etichetta di “castiga premier”, dunque suggerisce calma. Che non significa resa, perché una volta archiviata senza vittime la “pratica Mes”, il leader scapigliato presenterà il conto a chi «ha infilato il Movimento in questo vicolo cieco» : Luigi Di Maio e tutto cerchio magico. Di Battista salva Conte per rivendicarlo agli Stati generali, ancora in corso, e provare a prendersi il partito scaricando sull’attuale gruppo dirigente le colpe di una linea politica debole e inefficace. Giovedì, del resto, all’indomani del voto sul Mes, i militanti pentastellati saranno chiamati a scegliere tra guida collegiale e capo politico. L’ex deputato, non è un mistero, preferirebbe la seconda opzione per poter scalare il partito e guidarlo senza comprimari. E questo progetto, a quanto pare, passa da un atto di responsabilità: salvare la poltrona di Conte, senza al dissenso.

Secondo i calcoli di alcuni insider, gli irriducibili in Aula dovrebbero rimanere pochi: 8 o 9 alla Camera ( comunque ininfluenti) e 3 o 4 al Senato. Nulla in confronto ai sessanta parlamentari che avevano sottoscritto il documento iniziale. Eppure, quei tre o quattro eletti a Palazzo Madama potrebbero rappresentare comunque un problema politico enorme per il M5S. Tra loro, l’ex ministra per il Sud, Barbara Lezzi, insieme a Elio Lannutti e Mattia Crucioli. Difficilmente questi tre senatori accetterano di votare a favore di una risoluzione di maggioranza in cui non si riconoscono. Per questo su di loro è partita una poderosa campagna di pressione interna perché alla fine optino per uscire dall’Aula, anziché palesare un voto contrario.

Ma se i conti non tornassero, se fossero più di quattro ( numero già problematico) i dissidenti al Senato, per il Movimento le cose si metterebbero male. Per il Movimento, non per il premier che, confidano in tanti, riceverebbe comunque un aiutino da qualche esponente di Forza Italia “non allineato”. Di Maio e soci sarebbero costretti ad ammettere pubblicamente la propria debolezza, fornendo altre frecce all’arco di chi, praticamente tutti gli alleati, spinge da tempo per un rimpasto di governo che ridimensioni il peso pentastellato.