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Per essere un ultimatum, manca solo il termine temporale. Il premier Giuseppe Conte prova così ad uscire dall’angolo della polemica politica in cui lo hanno segregato Lega e 5 Stelle: “o i toni si abbassano e torniamo ad essere il governo del cambiamento, oppure mi dimetto”, è la sostanza del suo discorso, in cui dice esplicitamente che «non mi presterò a vivacchiare per protrarre mia permanenza a palazzo Chigi».
Per lanciare il suo messaggio alla maggioranza riottosa, il presidente del consiglio ha utilizzato il mezzo inusuale della conferenza stampa direttamente da Palazzo Chigi, sotto l’occhio attento di Rocco Casalino. Il discorso inizia con un lungo elenco di provvedimenti già approvati e continua con un altrettanto lungo elenco di provvedimenti da attuare, in particolare la riforma della giustizia penale, civile e tributaria e una organica riforma del sistema fiscale (flat tax compresa).
Da queste premesse, Conte passa ad analizzare duramente l’attuale situazione del governo, «oggettivamente conflittuale» : «Dobbiamo uscire dalla logica dei proclami a mezzo stampa, per fare una programmazione strategica lungimirante, che non si faccia determinare dai like nell’agorà digitale». Il nodo che ha scatenato la conflittualità è chiaro: il voto europeo, che ha ribaltato la maggioranza politica nei paesi e di cui Conte dà la sua lettura. «Il voto ha confermato la fiducia a questa esperienza di governo, ma ha modificato la distribuzione delle sue forze: c’è stato un successo significativo della Lega, mentre i 5 Stelle sono scesi», questo non provoca ovviamente ricadute dirette in Parlamento, ma il rischio è comunque alto: «La grande esaltazione dei vincitori e la delusione degli sconfitti non ha ancora spento il clima elettorale.
Ma questa “supereccitazione” è un clima che non giova all’azione di governo» . La linea- Conte è chiara: «Se continuiamo a indugiare in polemiche a mezzo stampa e freddure su social, non possiamo lavorare alla Fase 2 del governo». Di qui la domanda apertamente riferita ad entrambi i vicepremier, con cui ribadisce gli ottimi rapporti personali: «Chiedo a entrambe le forze politiche e ai loro leader di operare una chiara scelta e di dirmi se hanno intenzione di proseguire nello spirito del contratto stipulato», secondo il principio di «leale collaborazione». Proprio su questo Conte addirittura si spende in una lunga lista di esempi, troppo dettagliata per essere casuale: «Leale collaborazione significa che non si cambiano le decisioni prese in riunione; che se c’è ripensamento si chiede una nuova riunione; che ciascun ministro si occupa della propria materia di competenza senza invadere sfere che non gli competono (con velato riferimento a Salvini ndr); che le questioni politiche si affrontano rispettando la grammatica istituzionale e non lanciando segnali ambigui sui giornali».
Unico sassolino chiaro, se lo toglie proprio sul caso della lettera a Bruxelles di Tria, in riferimento ai 5 Stelle: «Se io e il ministro dell’Economia interloquiamo con le istituzioni europee per evitare la procedura di infrazione, le due forze politiche non devono intervenire per ridurre tutto con toni polemici». Parole dure quanto chiare, che terminano con l’aut aut a Lega e 5 Stelle, a cui Conte non chiede solo parole ma soprattutto fatti: «Se ci saranno comportamenti non coerenti, con la trasparenza e nel rispetto delle procedure dimetterò il mandato nelle mani del Presidente della Repubblica», e ancora «chiedo una risposta chiara, inequivoca e rapida, perchè il Paese non può attendere».
Ora la palla passa nel campo dei due partner: in quello della Lega galvanizzata dall’esito del voto, di cui pure Conte ha elencato tra le cose da fare i provvedimenti- chiave di decreto Autonomie e flat tax; in quello dei 5 Stelle, di cui il premier intuisce gli istinti elettorali per uscire dalla morsa leghista. Eppure, anche solo dalla scelta lessicale, i venti che soffiano a Palazzo Chigi non sembrano buoni: la minaccia del «non vivacchierò» ha un lungo passato in bocca a molti premier - da Letta ad Andreotti-, diventati ex ( con alterne vicende) ben presto dopo averla pronunciata.