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Gli avvocati dell’ex presidente brasiliano Ignacio Lula ieri hanno parlato di «persecuzione giudiziaria», e hanno detto che questa è una strategia sperimentata nella storia della nascita delle dittature. Lula l’altra sera è stato condannato a quasi dieci anni di prigione per la vicenda di un appartamento ristrutturato. Senza prove.
Lula è stato presidente del Brasile negli anni della grande crescita del Brasile, nel periodo dell’esplosione del miracolo economico, dei successi nella lotta contro la povertà e per il rafforzamento della democrazia. Lula è uno dei principali leader mondiali di questo secolo. Lula è un ex operaio, viene dal popolo, è stato perseguitato dalla dittatura militare negli anni sessanta e settanta, ha guidato il sindacato, poi il partito dei lavoratori, infine, per la prima volta nella storia del Brasile, ha portato la sinistra al potere, e ha governato molto bene, e ha lasciato l’incarico qualche anno fa, per scadenza dei termini, con una popolarità stupefacente, vicina all’ottanta per cento.
La destra brasiliana, e il centro moderato - forze che comunque, anche culturalmente, sono ancora legate alla storia triste del potere autoritario imposto dai militari mezzo secolo fa – non sono mai riusciti ad affrontarlo e a metterlo in difficoltà sul piano politico ed elettorale. Ora, alla vigilia delle prossime elezioni presidenziale ( ottobre 2018), Lula ha annunciato che dopo la pausa ( imposta dalla legge sul massimo due mandati consecutivi) è pronto a tornare in campo e a ripresentarsi come candidato presidente. I sondaggi dicono che ha già vinto, sulla carta. Ma ieri è arrivata la stangata, decisa, peraltro, non da una giuria popolare ma dal giudice Moro, nemico dichiarato di Lula da molti anni e che Lula pubblicamente e anche nel corso del processo ha sfidato più volte. Gli ha chiesto: «Come farai a condannarmi, se non hai le prove?». Il giudice Moro non ha risposto, a parole. Ha risposto coi fatti: lo ha condannato senza prove.
Ci sono settori della sinistra brasiliana che fremono, parlano di golpe giudiziario. Il giudice Moro è un personaggio interessante, ha sempre dichiarato grande ammirazione per il pool italiano di Mani pulite, in particolare ha detto che ilsuo idolo è Antonio Di Pietro. E questa inchiesta sulla corruzione in Brasile che sta conducendo ( e che gli ha già permesso di spedire in prigione un bel pezzo del gruppo dirigente del Pt, il partito di Lula) è stata esplicitamente e dichiaratamente costruita sul modello di “mani pulite”. Alcuni magistrati italiani, per esempio Piercamillo Davigo, sono stati ospiti in Brasile e hanno tenuto delle lezioni ai loro colleghi brasiliani. Con successo, si direbbe.
Ora, dopo la condanna, si sta discutendo della possibilità o meno, per Lula, di candidarsi alle presidenziali. I suoi accusatori avevano chiesto che fosse messo in prigione subito dopo la setenza di primo grado. Ma su questo il giudice Moro si è dimostrato più ragionevole del suo maestro italiano. Ha detto che sarebbe un trauma troppo grande per il paese l’arresto di un ex presidente. E ha chiesto di aspettare l’appello. Dove, tra l’altro, non sarà più un giudice monocratico a giudicare ma una giuria, e sarà assai più complesso condannare senza prove. Il giudice Moro però ha anche disposto l’interdizione di Lula dai pubblici uffici per 19 anni. Anche questa condanna non è immediatamente operativa, lo sarà solo dopo l’appello; però la sentenza di appello arriverà più o meno in coincidenza con il voto, e nel caso dovesse essere di condanna lascerebbe il Pt senza un candidato, o il paese senza un presidente. Un bel pasticcio.
Naturalmente è molto difficile non paragonare il caso Lula al caso Berlusconi. Con tutte le clamorose differenze: Lula è un operaio, Berlusconi un miliardario, Lula è un professionista della politica, Berlusconi no, Lula è un leader della sinistra mondiale, Berlusconi della destra. Tutti e due però sono dei leader di primissimo piano abbattuti non con le ar- mi della democrazia ma da una operazione condotta da un pezzo di magistratura. Operazione che indubbiamente, in tutti e due i casi, ha la caratteristica dell’accanimento. Tant’è vero che Lula, indicato come il capo di una gigantesca operazione corruttiva di miliardi di dollari, è stato poi condannato a 10 anni di carcere per la ristrutturazione di un appartamento. E Berlusconi – indicato a sua volta, più o meno, come il capo dei capi della malavita - per una modesta evasione fiscale di una sua azienda, della quale è molto improbabile che fosse a conoscenza. E prima ancora che a Berlusconi, il caso Lula va paragonato alla vicenda dell’accanimento giudiziario contro un altro leader socialista ( socialista come Lula), che noi conosciamo bene. Craxi: Bettino Craxi. Persino le modalità di questa operazione giudiziaria sono pressoché identiche a quelle del 92- 93 italiani: prima l’attacco al partito, la cattura di tutti i leader minori che circondavano la “preda”, e poi il colpo grosso. Craxi, Lula. Del resto, né i Pm di “mani pulite” italiana né il giudice Moro hanno mai nascosto che il loro obiettivo era quello: il capo, qui da noi si diceva “il cinghiale”. Con Craxi l’operazione andò a segno, e il leader dei socialisti italiani, ex premier, morì poco più che sessantenne, in esilio, abbandonato da tutti. Con Berlusconi e con Lula, invece, la partita è ancora aperta. E poi, lo sapete bene, è aperta un altra partita giudiziaria di grandissimo rilievo. Il possibile impeachment di Trump. Il copione è anche lì molto simile. Una sconfitta elettorale digerita male e il tentativo di rivincita giudiziaria.
Non so se è una consolazione o no, sapere che in tutto il mondo, non solo in Italia, la democrazia è un incudine sistemata sotto il martello giudiziario, e sembra molto difficile portarla in salvo. Credo che non lo sia affatto, una consolazione. Magari invece sarebbe il caso di affrontare l’allarme. L’allarme di un potere “imprevisto” nelle costruzioni degli stati liberali, il potere giudiziario, che si sta sviluppando oltre misura, fuori da ogni controllo, e che ha preso il sopravvento non solo sulla politica, ma sulla struttura stessa della democrazia.