Le intercettazioni dell’inchiesta contro il sindaco di Riace Mimmo Lucano sono state disposte senza che ce ne fossero i presupposti e pertanto erano inutilizzabili. Ma anche a volerle considerare utilizzabili, i dialoghi intercettati hanno dimostrato l’innocenza di Lucano e degli altri imputati, così come stabilito dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria.

La Cassazione seppellisce definitivamente il dubbio che l’europarlamentare di Avs e primo cittadino della città dei bronzi - finito a processo insieme ad altre 17 persone per la gestione dell’accoglienza sia stato salvato da un “cavillo” giuridico. Che tale, comunque, non sarebbe stato. Nelle motivazioni della sentenza con la quale lo scorso 12 febbraio si è chiuso dopo sette anni il calvario giudiziario di Lucano (difeso da Andrea Daqua e Giuliano Pisapia) emerge infatti come sin dal principio il reato ipotizzabile fosse il 640 secondo comma ( aggravata ai danni dello Stato), che non prevede la possibilità di intercettare, contrariamente al reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, così com’è stato riconfigurato nel corso del processo portando alla condanna monstre, in primo grado, a 13 anni e due mesi.

A chiarire che la natura dell’ipotetico reato non potesse essere quella che avrebbe reso possibili le intercettazioni sono le “istruzioni” dello stesso ministero dell’Interno: secondo le impostazioni del Viminale, infatti, le somme ricevute dal Comune di Riace per l’accoglienza non erano sovvenzioni pubbliche, ma pagamenti per servizi resi nell’ambito di un rapporto contrattuale tra il Comune e le associazioni.

Le somme destinate a queste ultime erano quindi corrispettivi per un servizio, non finanziamenti pubblici diretti, cosa nota sin dal principio e che dunque portava ad escludere la possibilità di disporre intercettazioni, principale elemento di prova dell’accusa. Se non fosse che anche le intercettazioni - sottoposte a prova rafforzata dalla Corte d’Appello - non hanno dimostrato nessuna colpevolezza e nessuna truffa dell’accoglienza a Riace, dove Lucano, si legge in sentenza, ha agito in assenza «di qualsivoglia fine di profitto» con «indiscutibile intento solidaristico» e per portare avanti «la propria idea di accoglienza».

Già al momento della richiesta di autorizzazione il pm aveva fatto riferimento al “regime convenzionale intercorrente tra il Comune e le associazioni” come elemento fondamentale per la qualificazione giuridica. Il che vuol dire che i fatti erano già noti e che il pm li aveva descritti nella sua richiesta in maniera corretta. Tant’è che nella stessa richiesta di rinvio a giudizio iniziale, il pm aveva contestato i fatti come violazioni dell’articolo 640, comma 2, n. 1, cp, cambiando idea solo durante l’udienza del 29 marzo 2021, quando venne contestata la truffa aggravata. Il tutto ignorando la sentenza Cavallo e applicando retroattivamente la riforma Bonafede.

Insomma, il racconto falso su Riace non era quello di Lucano, ma quello dei suoi detrattori. Cosa chiara già con la sentenza d’appello - non impugnata sul punto -, che aveva escluso l’associazione a delinquere finalizzata a ottenere illecitamente fondi pubblici attraverso la gestione dell’accoglienza dei migranti, riconosciuta, invece, dal Tribunale di Locri. Per i giudici d’appello, però, non c’era una struttura organizzata con finalità criminali, ma solo una gestione al più disordinata del sistema di accoglienza; non erano provati accordi illeciti tra gli imputati per commettere reati e Lucano non aveva tratto vantaggi economici personali, il che portava ad escludere anche il peculato. Un punto sul quale anche l’accusa, alla fine, aveva deposto le armi.

L’unico reato per cui la condanna di Lucano è stata confermata riguarda un episodio di falso ideologico in atto pubblico ( art. 479 c. p.) relativo alla determina n. 57 del 2017. La determina riguardava una rendicontazione irregolare per evitare che il Comune perdesse fondi già spesi, come dimostrato, secondo i giudici, da intercettazione ambientale. Ma proprio la finalità solidaristica di Lucano aveva portato alla pena minima, un anno e sei mesi, con sospensione condizionale.

Le motivazioni confermano dunque che non ci fu alcun abuso di potere da parte di Lucano. Fatto, questo, che renderebbe inapplicabile la legge Severino, che prevede la decadenza in caso di reati contro la pubblica amministrazione, come la corruzione, la concussione e l’abuso d’ufficio. Il falso ideologico in atto pubblico, per il quale Lucano è stato condannato, non rientra automaticamente tra i reati che determinano l’incandidabilità immediata. Tuttavia, il Viminale ne ha chiesto la decadenza. Un ultimo tentativo di mandarlo via da Riace, contro il quale Lucano ha già promesso battaglia.