Né avvocato, né politico: «cittadino indignato». Ecco chi è l’uomo della settimana, Luigi Li Gotti. Colui che con una sola mossa è riuscito a ribaltare lo scacchiere dello scontro, quello tra toghe e politica. Penalista di professione, già senatore, e ancora prima militante per entusiasmo giovanile. Calabrese di nascita e romano d’adozione. Classe 1947.

È bastato (si fa per dire) che presentasse una denuncia contro la presidente del Consiglio e i suoi ministri per finire sulle pagine di tutti i giornali e nei salotti dei talk show. Complice il video della stessa Giorgia Meloni, che annunciando l’indagine a suo carico lo ha tirato in ballo per nome e cognome. Il quale, vogliamo dirlo ufficialmente, ha la grafia separata: «Li Gotti staccato, sono sicurissimo. All’anagrafe Luigi Mario, Armando. Hanno dimenticato di mettere una virgola».

Almeno un mistero è risolto. Resta tutto il contorno, ovvero il tuffo necessario nella “biografia politica” di chi ha portato le carte alla procura capitolina. Da dove viene? E perché ha presentato quell’esposto? Un dubbio alla volta.

Per cominciare ci chiediamo se la ribalta mediatica sia più un piacere che un intralcio. «Fastidio no, non me ne procura. Ma devo frequentemente interrompere il mio lavoro per rispondere alle telefonate...». Compresa la nostra, che punta all’uomo dietro l’avvocato. Ma parte dove parte tutto: quel video diffuso a mezzo social dalla premier. «Non l’ho visto subito, mi hanno riferito. Ero in treno, diretto a un processo. Ascoltavo musica...», dice con una certa sospensione nella voce. Capiamo che ne vale la pena: ai gusti musicali ci torniamo.

Ma quella voce, riflettiamo, è anche graffiata e calma: tutta l’attenzione che il Paese gli riserva sembra non scalfirlo neanche un pochettino. Ma lei si immaginava di tirare su un tale casino? «Dico che probabilmente non sarebbe successo nulla, se il Presidente del Consiglio avesse detto nel suo video che la decisione era stata assunta nell’interesse della nazione, invocando la ragione di Stato. E invece ha detto esattamente il contrario, sostenendo che il governo non c’entra niente».

E qui arriviamo al motivo del suo esposto, ovvero al caso Almasri e alla versione che l’esecutivo ha dato per il suo rimpatrio. Li Gotti ha avuto uno scatto di dignità, dice, si è sentito preso in giro. Un sentimento che lo ha portato dritto dai pm? «È lo stesso spirito che mi ha mosso per il naufragio di Cutro. Ho pensato subito a che cosa avrei potuto fare». E infatti ha assunto la difesa delle famiglie delle vittime. Il tema migranti lo coinvolge. E il pensiero di rimettere in libertà un generale libico accusato di violenze e torture lo indigna. «Fa pensare che questa persona continuerà a fare ciò che ha fatto, no?».

Ma proviamo ad andare oltre. Perché anche l’impegno politico del nostro è ormai notizia, per chi cerca di unire il filo tra il giovane missino e l’attuale simpatizzante dem. «Ho cominciato a fare politica a 16 anni, ero dirigente giovanile nell’Msi, poi consigliere comunale, poi segretario della Federazione». E poi la svolta, tra il ’74 e il ’75, quando si trasferisce a Roma e la politica gli complica le cose. «Ho cominciato a fare una serie di processi per i quali era meglio evitare». Si tratta di Piazza Fontana, rispetto al quale «era meglio avere una posizione molto distaccata».

Fatto sta che rompe con la destra, dentro la quale – dice – segue comunque la «corrente di sinistra». Non si riconosce più nello scenario che ingloba Berlusconi. Non gli piacciono le leggi ad personam e il legittimo impedimento. Cambia, va con l’Italia dei valori di Antonio di Pietro. Meloni lo colloca dalle parti di Prodi, e in effetti Li Gotti ha fatto il sottosegretario alla Giustizia nel suo secondo governo. Ma gli era vicino? «Zero».

Condivideva l’incarico con Luigi Manconi, guardasigilli Clemente Mastella, ma neanche in quel caso la differenza di vedute è stato un problema. Neanche per la grazia a Ovidio Bompressi, lui difensore della famiglia Calabresi. «Vedevo la sua trasformazione. Nelle sue parole, nei suoi occhi, c’era dolore. Capì che non era più la stessa persona». Adriano Sofri lo definisce “nemico” e “non avversario”, dentro e fuori le aule di giustizia. «È chiaro che ce l’ha con me. In quel processo sono stato duro. E infatti lui mi definì un avvocato-cane. Mi diceva: “Ti bastonerei se fossimo nel ‘500, io ti bastonerei come facevano i Signori con i servi”. E io gli rispondevo: “Impossibile, perché tu non sei Signore”».

Non c’è amore, insomma, ma neanche rancore. A detta del legale, che guarda al passato sempre con una piccola risata. Un tratto del carattere è chiaro: Li Gotti parla con tutti. Non è «ideologico», assicura. Ma «sono un po’ speculativo». Cioè, va dentro le cose, perché «anche una virgola può cambiare il significato di un’espressione». E siccome ci troviamo a parlare di sfumature, gli chiediamo come risponde a quella parte del video di Meloni che lo riguarda. Quando è velatamente associato alla mafia per aver assistito i pentiti di Cosa Nostra Giovanni Brusca e Tommaso Buscetta. «In questo mondo Meloni non attacca me, ma evoca le figure professionali di Falcone e Borsellino che vollero fortemente la legge sui collaboratori di giustizia». E non a caso fu proprio Falcone, dice, a telefonargli per chiedergli di assumere la difesa di Francesco Marino Mannoia. Un avvocato difende la persona e non il reato, ragiona. «Solo una volta nella mia vita ne ho sentito uno difendere il reato. Ma era un avvocato strano...».

La passione per il processo viene da lontano, quando da ragazzino in Calabria saltava la scuola per andare ad annusare l’Aula della Corte d’Assise con le orecchie commosse di fronte ai grandi oratori che la popolavano. Allora era un’altra cosa, dice, un po’ rammaricato. Lui che il processo penale l’ha attraverso in tutte le sue evoluzioni, da prima che la difesa fosse davvero garantita. Sì dice garantista, sì, ma capiamo che Li Gotti non ama le etichette. Sfugge per sua natura alle definizioni. Lo sa pure lui, e infatti scoppia a ridere ricordandosi di quella volta che ha assunto un avvocato comunista per la sua difesa.

Il rosso e nero, per Luigi Li Gotti, stanno sulla stessa tavolozza. (Che gli piace del secondo? «La socializzazione, non totalmente il corporativismo»). Tanto è vero che anche la sua amata collezione di tazze, quelle per il cappuccino, ne annoverano due dello stesso colore. E non sono solo un cimelio. Le usa al mattino presto, intorno alle 3, quando si prepara il primo caffè per poi tuffarsi nello studio matto e disperato. Gli piace approfittare della calma, mentre noi altri dormiamo. E del caffè si dimostra un discreto appassionato. Anche se il cuore è tutto per la musica. Ma allora che ascoltava sul treno l’altro giorno? «Renato Zero e De Gregori. Mi stavo divertendo tanto...».