In Italia si registra una diminuzione costante degli omicidi volontari consumati. È quanto emerge dall’ultimo report del Servizio analisi criminale della Direzione centrale della polizia criminale, che ha preso come periodo di riferimento il decennio 2015-2024.

Il calo degli omicidi volontari è pari al 33%: nel 2015 sono stati 475, mentre lo scorso anno il numero è sceso a 319 (il tasso di omicidi è di 0,54 vittime per 100mila abitanti). Il decremento è stato del 6% se si considera il biennio 2023-2024. Due anni fa gli omicidi sono stati 340, mentre nel 2024 hanno raggiunto quota 319.
La Direzione centrale della polizia criminale si sofferma anche sugli omicidi commessi in “contesti di criminalità di tipo mafioso”. In questo caso il calo degli eventi è stato addirittura del 72% nel decennio 2015-2024. Dieci anni fa gli omicidi sono stati 53, lo scorso anno in tutto sono stati 15. Un quadro chiaro che fa riflettere e che richiede un diverso approccio in merito alla descrizione dell’Italia come un “Paese mafioso”, anche se va sottolineato che la presenza della criminalità organizzata è ancora un problema serio. La mafia agisce, rispetto al passato, con altre modalità: alcuni conti non si regolano più con agguati, sparatorie e omicidi. Il trend è confermato dai dati Eurostat relativi agli omicidi volontari registrati in Europa, che, per il 2022, collocano l’Italia tra i Paesi più sicuri in riferimento a questa tipologia di reato.
«In passato – si legge nel report -, le organizzazioni criminali di stampo mafioso, come Cosa nostra, camorra, ’ndrangheta e criminalità organizzata pugliese ricorrevano all’omicidio come uno degli strumenti principali per intimidire e risolvere conflitti interni o esterni, sia pure con le dovute differenze relative alle rispettive caratteristiche strutturali e organizzative. In contesti criminali di stampo camorristico, infatti, l’omicidio era finalizzato a segnare la supremazia dell’organizzazione stessa su un determinato territorio, intimidire i clan rivali o rafforzare il proprio potere e la propria influenza all’interno delle comunità locali. Negli altri ambienti mafiosi, invece, caratterizzati da un’organizzazione verticistica di stampo prettamente familiare, la violenza era usata o per eliminare gli esponenti dello Stato e della società civile, percepiti come minaccia, o per punire chi non si sottometteva o non rispettava le regole del gruppo, alimentando quella paura che rendeva difficile la denuncia e la collaborazione con le forze dell’ordine e la magistratura». Dunque, un cambio del modus operandi delle mafie che smonta la narrazione dell’Italia perennemente “malata di mafia” con evidenti squilibri tra la percezione di determinati fenomeni e la realtà.
Lo studio della Direzione centrale della polizia criminale, conferma, come evidenzia Gian Maria Fara, presidente e fondatore dell’Eurispes (istituto che opera nel campo della ricerca politica, economica e sociale) «il passaggio delle mafie dalla strada alle stanze ovattate dei consigli di amministrazione e delle grandi centrali finanziarie, dove i destini di un’impresa, di un marchio, di una filiera o di un intero comparto economico vengono decisi. Una “violenza economica” pervasiva che approfitta di ogni vulnerabilità per affondare i denti nel tessuto imprenditoriale e sociale ed estendere il controllo economico sui territori».

«Le organizzazioni mafiose – spiega Fara - sono profondamente cambiate nel corso degli anni. Hanno sostituito la vecchia lupara con armi e strategie meno rumorose ma persino più aggressive ed insidiose. L’interesse mafioso ha portato all’abbandono di ogni forma di confronto-scontro cruento con i poteri dello Stato e alla riduzione dell’intensità delle guerre sul territorio tra organizzazioni avversarie. Le mafie, infatti, rifuggono generalmente dal clamore dei decenni passati e hanno invece necessità di non provocare, elevando l’allarme sociale, l’attenzione e la reazione delle istituzioni e delle forze dell’ordine».
A lungo negli anni scorsi ci si è soffermati sul racconto dell’Italia come un “Paese mafioso”. Una distorsione della realtà che ha provocato all’Italia un danno d’immagine. I dati della Direzione centrale della polizia criminale dimostrano un’altra situazione. «Molte voci – commenta Gian Maria Fara - hanno contribuito negli anni all’edificazione o, quantomeno, al rafforzamento, dall’interno, dell’immagine dell’Italia come Paese corrotto, anzi, tra i più corrotti in assoluto, e, in seconda battuta, come patria delle mafie. Il risultato di una simile vulgata, scorretta quanto pericolosa, è stato il progressivo abbassamento dell’appeal del Paese e dei suoi principali attori economici sul piano imprenditoriale e finanziario, con gravi ricadute in termini di crescita e sviluppo economico ed occupazionale. Al fronte interno di coloro i quali dipingono l’Italia come culla del malaffare si sono uniti, e non poteva che essere così, gli attori internazionali protagonisti di una vera e propria ingegneria reputazionale, che fondano classifiche e graduatorie di merito degli ordinamenti attraverso la mera percezione soggettiva della corruzione. Confrontandosi con il tema della “misurazione della corruzione”, basata sostanzialmente solo su indici percettivi, l’Eurispes ha inteso approfondire il tema dal punto di vista scientifico, con l’obiettivo di ridurre lo iato tra realtà e immagine o reputazione dell’Italia, giungendo a conclusioni di segno opposto».
Secondo il presidente dell’Eurispes, i temi della sicurezza assumono una rilevanza prioritaria nel dibattito pubblico in Italia, come pure nel sentire di ogni cittadino. «La sicurezza – conclude Fara - rappresenta infatti uno degli argomenti centrali nella comunicazione politica e in quella degli organi d’informazione, ma è necessario distinguere tra rischio reale e rischio percepito, categorie che spesso non collimano, l’uno basato su dati oggettivi e misurabili, l’altro condizionato da dinamiche soggettive come la paura e l’incertezza sul futuro. La paura e l’incertezza sono caratteristiche del nostro tempo, alimentate da emergenze continue, che hanno fatto coniare parole come “permacrisi” o “policrisi”, già accolte nei dizionari. Tale sensazione di insicurezza non sembra aver spesso però un diretto riscontro nella realtà, così che la sfida ambiziosa di chi si interroga sul presente, ma anche di chi si occupa di comunicazione, è quella di fornire un’analisi basata su dati concreti e una visione d’insieme che offra una corretta interpretazione dei fenomeni, al di là dei luoghi comuni e dei facili allarmismi».