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Il ministro della Giustizia Carlo Nordio in Aula per la mozione di sfiducia
Un passaggio dice tutto. Carlo Nordio ha iniziato da poco la propria “dichiarazione spontanea”. È l’imputato del processo allestito a Montecitorio. Parte con un inciso in apparenza fuorviante. Anziché di Almasri, parla di carcere. Delle accuse che gli sono state rivolte per il sovraffollamento e i suicidi che ne sarebbero conseguenza.
Cita Roberto Giachetti e la denuncia che il deputato di Italia viva – nonché segretario d’Aula incaricato, pochi istanti prima, di leggere il resoconto della seduta precedente – ha presentato, con Nessuno tocchi Caino, l’estate scorsa, e nella quale lui, il guardasigilli, è indicato come «concorrente nel reato di omicidio per i suicidi in carcere. Evidentemente», chiosa l’imputato Nordio, «il collega Giachetti ha invocato l’articolo 40, secondo comma, del codice penale, secondo cui non impedire un evento che si ha l’obbligo di evitare equivale a cagionarlo.
Ebbene, se il ministro della Giustizia fosse responsabile penalmente dei suicidi in carcere, allora la situazione sarebbe molto più complessa». Perché? Nordio lo spiega: «Se anche uno solo dei suicidi che sono avvenuti negli anni precedenti fosse stato imputabile al ministro della Giustizia», cioè a uno dei predecessori, «allora avremmo dovuto avere tutta una serie di processi nei loro confronti». Ma «per tutti i suicidi accaduti negli anni passati, i pubblici ministeri avrebbero dovuto instaurare l’azione penale, e se non lo hanno fatto, e non lo hanno fatto, e avessero dovuto farlo, secondo l’assunto dell’onorevole Giachetti, sarebbero incorsi in quel reato di omissione di atti d’ufficio per il quale, tra l’altro, questo stesso ministro si trova oggi o domani a essere indagato davanti al Tribunale dei ministri...».
Niente male: più che ai trascorsi da procuratore aggiunto a Venezia, Nordio sembra ispirarsi alla tradizione forense dei propri familiari: arringa, o meglio autodifesa, da maestro. Un attimo dopo farà notare a Giachetti, e in realtà all’intera opposizione, che «la spada della giustizia ferisce anche chi la brandeggia in modo improprio, come è accaduto in questo caso». Allude chiaramente alla zappa che il deputato renziano e radicale si sarebbe dato sui piedi con la denuncia per i suicidi in carcere, tragedia correlata appunto a una potenziale gravissima omissione degli stessi magistrati, e cioè della parte con cui il centrosinistra sembra schierato, nella contesa sulla separazione delle carriere. “Ve la prendete con me ma non loro”, è come se avesse voluto dire il ministro che vuole il “divorzio” tra giudici e pm.
È la sottile e, nello stesso tempo, plastica certificazione del significato che Nordio attribuisce alla sfiducia presentata nei suoi confronti: un attacco rivolto alla prima linea del governo nella battaglia con l’Anm sulla riforma della giustizia. Il guardasigilli, nell’introdurre la propria autodifesa, chiama non casualmente in causa la vera controparte, la magistratura (dalla quale peraltro lui stesso proviene). Pochi istanti dopo renderà ancora più esplicita la consapevolezza del senso politico che ha assunto l’assedio: «Volete fermarmi, ma non ci riuscirete: il vostro è un attacco programmato per evitare quella che, secondo noi, è la madre di tutte le riforme, la separazione delle carriere». Fino alla citazione churchilliana: «Se voi farete del vostro peggio, noi faremo del nostro meglio». Nordio raccoglie la dichiarazione di guerra. E si professa consapevole della posta in gioco.
Come si è ricordato sul Dubbio, la sfiducia tentata dalle opposizioni è il primo di una lunga serie di attacchi a chi, come Nordio, della riforma sui magistrati è il simbolo. Nulla di nuovo. Ma c’è un dettaglio non trascurabile: il guardasigilli è la primissima linea ma è anche il meno “politico” dei protagonisti in campo. Eppure è tutta politica la prospettiva della contesa. Che non riguarda tanto il divorzio fra giudici e pm: il Pd, per dire, non potrebbe accogliere come una catastrofe l’entrata in vigore della riforma. Il punto è che se il referendum sulle carriere separate finisse male per l’Esecutivo, ne deriverebbero pesanti e più generali conseguenze per Giorgia Meloni innanzitutto. Secondo le previsioni più realistiche, la consultazione sulla riforma Nordio si celebrerà nella primavera del 2026. Se il centrodestra ne uscisse sconfitto, la premier si troverebbe azzoppata a poco più di un anno dalle nuove Politiche, che saranno probabilmente anticipate a inizio giugno 2027. Un disastro dalle proporzioni incalcolabili.
Nordio è dunque il frontman di una battaglia in cui il centrodestra si gioca qualcosa di diverso dal riassetto costituzionale della magistratura: in ballo c’è la permanenza al governo. Ecco perché sul guardasigilli incombe una responsabilità politica pesantissima. Ecco perché ieri il ministro ai Rapporti col Parlamento Luca Ciriani, non a caso di FdI, ha definito «tecnicamente realizzabile» uno sprint che anticipi il referendum sulle carriere alla fine di quest’anno: il più lontano possibile, cioè, dall’altro voto, quello per il rinnovo del Parlamento. È l’ulteriore prova, casomai ce ne fosse bisogno, di quanto a Palazzo Chigi comprendano il pericolo che sulla giustizia corre non solo Nordio ma l’intero centrodestra.