Tommaso Calderone, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia alla Camera, prova a cambiare la custodia cautelare, intervenendo nella parte che prevede, tra le esigenze, il rischio di reiterazione del reato. Con una proposta «garantista», spiega al Dubbio, che prevede di rivalutare l’esigenza dopo 60 giorni e che «farà storcere il naso a più di un giustizialista. Fosse già esistita, avrebbe consentito di evitare casi come quello di Giovanni Toti», ai domiciliari per corruzione dal 7 maggio e di fatto “costretto” a rinunciare al proprio ruolo per tornare in libertà.

La proposta supera le riforme Nordio, andando a incidere sull’aspetto più delicato delle indagini, ovvero la privazione della libertà degli indagati, laddove necessaria. Un passo ulteriore rispetto a quella collegialità del giudice già intesa dalla maggioranza come momento di garanzia per chi è sottoposto ad indagine. L’idea è quella di incidere sulle esigenze cautelari, soprattutto su quella che garantisce maggiore «potere e libertà» ai giudici: il pericolo di reiterazione del reato, appunto. «È una formula che garantisce ai magistrati un potere infinito, così da consentire, nel 99 per cento dei casi, di trasformare la misura cautelare in pena anticipata».

La proposta è composta da un unico articolo, in base al quale, nei casi di rischio di reiterazione, «l’esigenza cautelare è riesaminata, anche d’ufficio, decorsi sessanta giorni dall’applicazione della misura. In assenza di nuove esigenze cautelari, desumibili da atti e fatti concreti e attuali, diversi e ulteriori rispetto a quelli sulla cui base è stata disposta la misura, il giudice ne dispone la revoca, ovvero la sostituzione con altra misura meno afflittiva». Ma tranquilli, assicura il deputato forzista, tale norma non vale per i reati ostativi e a sfondo sessuale, quelli che destano maggiore allarme sociale.

Calderone ha scritto la sua proposta ragionando da avvocato, più che da politico: «Frequentando ogni giorno le aule di Tribunale - ha sottolineato - so che questo è un aspetto patologico a cui nessuno ha mai messo mano». Perché l’esigenza cautelare più frequentemente invocata nel richiedere provvedimenti limitativi della libertà personale e, al contempo, quella più difficilmente confutabile da parte della difesa, scrive nella sua relazione, è proprio questa, che pur non essendo in contrasto con il diritto costituzionale «pone rilevanti conseguenze e ripercussioni».

Il motivo, scrive Calderone, è semplice: si fonda sulla «sensibilità del giudice nella valutazione del pericolo di ulteriori comportamenti criminali da parte del cittadino indagato o imputato, comportando un serio rischio di strumentalizzazione della misura cautelare». Di mezzo, infatti, non c’è solo l’analisi del fatto, ma anche «la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato», motivo per cui ciò che viene chiesto, nella valutazione di questo pericolo, è «di formulare un giudizio prognostico sul suo autore. Se la pericolosità sociale può essere desunta da comportamenti o atti concreti o anche da precedenti penali - prosegue Calderone -, si coglie come l’intervento cautelare si avvicina ai caratteri di una misura di sicurezza».

Ciò provocherebbe un corto circuito con un principio costituzionale, quello di non colpevolezza. Per tale motivo, dunque, Calderone ha deciso di intervenire, con lo scopo, mette nero su bianco, di «restituire centralità alla valutazione del fatto e non del tipo di autore, così limitando le criticità insite nel concetto di pericolosità. Si prevede infatti che il giudice, anche d’ufficio, dopo sessanta giorni dall’applicazione della misura, provveda ad una nuova valutazione dei presupposti legittimanti la stessa e che ove non ravvisi la sussistenza delle esigenze cautelari, accertate sulla base di atti e fatti concreti e attuali, diversi e ulteriori rispetto a quelli sulla cui base è stata disposta la misura (la “pericolosità”) dovrà disporre la revoca della misura, ovvero sostituirla con altra meno afflittiva».

Il che calzerebbe a pennello sul caso Toti: la reiterazione della misura, infatti, si basa, nel suo caso, su fatti vecchi, ma che il governatore, secondo i giudici, potrebbe reiterare per via del suo ruolo. Al quale non può essere sottratto se non per libera scelta politica. «A tal proposito giova ribadire come la privazione della libertà personale sia, di per sé ontologicamente, momento di grave afflizione e disonore sociale, soprattutto per persone che non sono aduse al crimine e che, dopo un cospicuo lasso di tempo (sessanta giorni) trascorso in custodia cautelare, necessariamente non sono più gli stessi del momento dell’applicazione della misura coercitiva: è evidente come rispetto a tali soggetti e alle vicende processuali che li vedono coinvolti il fattore tempo abbia un’incidenza esiziale - aggiunge il deputato di FI -. Prevedere che, decorsi sessanta giorni, si riattivi una nuova valutazione sulla sussistenza di presupposti nuovi e diversi rispetto a quelli che hanno supportato l’originario provvedimento, implica codificare proprio quella significante che è il fattore tempo».

E disegnare un perimetro normativo più chiaro, conclude Calderone, non farà altro che agevolare il giudice «nell’esercizio del proprio ruolo» e tutte le parti in causa: «La maggior chiarezza si traduce necessariamente in maggiore tutela e, quindi, maggiore efficienza del procedimento penale».