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Da anni sul Dubbio ci occupiamo del ruolo che l’avvocato riveste nell’architettura del sistema civile. Più semplicemente, nella democrazia. Si tratta di una materia che conosce un’ampia varietà di declinazioni e conseguenze. Non ultima la battaglia che le rappresentanze forensi, a cominciare dal Cnf, conducono perché venga riconosciuto anche nella Carta costituzionale il rilievo “sistemico” non solo del diritto di difesa, già sancito all’articolo 24, ma appunto dell’unica professione in grado di assicurare compiutamente l’accesso alla tutela dei diritti e la parità nel processo: la professione forense.
Ci sono, come si diceva, diverse declinazioni di questa battaglia, alcune delle quali sottovalutate, perché comprensibili, nella loro valenza, solo alla comunità degli avvocati. Eppure si tratta di problemi che non possono essere taciuti, considerati magari materia esclusiva del dibattito interno alle istituzioni dell’avvocatura o, al più, circoscrivibili al rapporto con le istituzioni dello Stato, cioè con la politica e i magistrati.
Tra i temi riconducibili a questo secondo ambito ce n’è uno cruciale: il rapporto di fiducia su cui si regge la relazione, in generale, fra l’avvocato e il proprio assistito, e il peso che tale rapporto deve assumere per qualsiasi tipo di incarico difensivo, inclusi quelli conferiti da amministrazioni pubbliche. E qui in effetti si entra in una sfera delicatissima. Perché è chiaro che entrano in gioco gli interessi, pubblici appunto, al contenimento della spesa ma anche alla difesa più efficace possibile nelle controversie. È il campo in cui negli ultimi anni si è giocata la battaglia dei professionisti, e degli avvocati innanzitutto, per l’equo compenso.
Ed è lo stesso campo in cui si disputa la sfida fra le rappresentanze forensi e diversi soggetti istituzionali – innanzitutto i Tar e l’Autorità Anticorruzione – sulle modalità di conferimento degli incarichi legali. Si tratta di rapporti fiduciari o di servizi da sottoporre alla disciplina del Codice per gli appalti? Il rapporto fiduciario è non è l’aspetto prevalente su tutti gli altri, e persino sulle note e sempre enfatizzate esigenze di economicità e trasparenza, cioè su quei presupposti dai quali un ente pubblico è orientato nel momento in cui emana un bando per scegliere il fornitore di un certo servizio?
Incarichi legali basati sulla fiducia: un principio
Sembra un rebus legato da una parte all’interesse economico, come detto, della pubblica amministrazione di volta in volta “bisognosa” di consulenza o di una vera e propria difesa legale, e dall’altra alla necessità che, in concreto, sindaci, governatori, assessori, dirigenti pubblici avvertono di affidare a un avvocato di fiducia incarichi delicati.
È noto come Tar e Anac, sul tema, abbiano avuto e in parte continuano ad avere punti di vista assai diversi da quelli della comunità forense. Ma intanto va chiarito una volta per tutte come il rebus racchiuda in sé un valore ancora di maggior rilievo: la natura degli Ordini, e cioè della professione legale. Che è garante nell’accesso ai diritti. E se lo è, non può essere né equiparata a un fornitore qualsiasi né, per converso, relegata, nella propria struttura istituzionale e associativa, al regime delle pubbliche amministrazioni. Perché? Perché qualcuno dovrebbe altrimenti spiegare com’è possibile che una professione ritenuta, da gran parte della politica e persino da qualche segmento illuminato della magistratura, meritevole di entrare in Costituzione, possa poi, quando si tratta di regolare il conferimento degli incarichi legali pubblici, essere di nuovo trattata alla stregua di un fornitore qualunque.
È tutta qui, la delicatissima distinzione: l’avvocato riceve un compenso, dunque mobilita risorse, anche pubbliche. Ma non può perdere mai il proprio, unico, carattere di intermediatore fra la comunità e i diritti. Non si può schiacciare, sotto il pregiudizio generato forse in alcuni dalla stessa percezione di un compenso, la funzione ultima che alla professione forense una democrazia dovrebbe riconoscere.
Visto che, come si vede, la materia non è semplicemente circoscritta alla sottile distinzione giuridica, abbiamo ritenuto importante dedicarle un intero “Dubbio del lunedì”. E nel farlo, abbiamo così valorizzato, com’era doveroso, la straordinaria intervista al presidente dell’Anac Giuseppe Busia realizzata da Stefano Bigolaro, avvocato e, ormai da anni, insostituibile commentatore di questo giornale. Busia, o meglio l’Authority da lui presieduta, rappresenta, insieme con i Tar, l’interlocutore più “impegnativo”, per l’avvocatura, sulla questione del rapporto fiduciario come valore che prevale sul “mercato”.
Nell’ampia e ricchissima – unica nel suo genere – conversazione fra Busia e Bigolaro, troverete degli spiragli, delle aperture, dei riconoscimenti che il presidente dell’Autorità Anticorruzione fa, con la propria onestà intellettuale, proprio rispetto alla “peculiarità” della professione forense e in particolare al rapporto fiduciario che il legislatore, nell’ultimo Codice degli appalti (o più propriamente dei Contratti pubblici) ha voluto sancire, pur senza sciogliere in via definitiva alcuni corollari.
Il paradosso degli Ordini forensi imbrigliati dalle regole sulle Pa
Un piccolo passo avanti. Ma oltre al riconoscimento di Busia, che ha un valore politico e che d’altra parte non comporta una revisione davvero radicale della “dottrina Anac” sugli incarichi legali, serviranno segnali evolutivi da parte sia del legislatore che della magistratura. Sarà evidente a molti – quanto meno a molti tra chi nell’avvocatura, si sia impegnato ad affrontare il problema – come il percorso per affermare la specificità, la peculiarità della professione legale rispetto a qualsiasi altra attività “autonoma” strida un po’ con un altro, paradossale misunderstanding interpretativo, legato alla natura giuridica degli Ordini, degli Ordini forensi e non solo, e alla opportunità di assoggettarli agli oneri normalmente previsti per gli enti pubblici.
È l’altro grande ambito tematico che in queste pagine cerchiamo di affrontare, di nuovo con l’intervista di Stefano Bigolaro a Giuseppe Busia e, nelle due pagine ancora successive, con un importante parere espresso dal Cnf, nel maggio dello scorso anno, sull’applicabilità del Codice degli appalti alle istituzioni dell’avvocatura. Di fatto, il problema concreto riguardante l’assoggettamento, di un ente certamente non assimilabile a un Comune o a una Regione qual è un Ordine degli avvocati, agli stessi obblighi, in materia di trasparenza per esempio, di una Pa, non è stato risolto né dal tanto atteso, e comunque importante decreto legge 75 del 2023 e neppure dal nuovo Codice degli appalti (tecnicamente, il decreto legislativo 36 del 2023). Uno stallo, un limbo giuridico- semantico che costituisce fonte di oneri, costi, investimento di tempo, per i Coa, per i loro presidenti e consiglieri, per il Cnf.
Non è un caso che dopo il parere espresso da via del Governo vecchio (su un interpello dell’Unione regionale degli Ordini dell’Emilia Romagna, l’Urcofer) si siamo mosse anche altre istituzioni dell’avvocatura. Innanzitutto con una delibera approvata congiuntamente da tutte le Unioni forensi territoriali il 26 luglio del 2024. L’Unione Triveneta, poi, in particolare, aveva realizzato in precedenza un preziosissimo studio su “Natura giuridica degli Ordini degli avvocati e regole del loro operato”. Se n’era occupata la commissione Diritto amministrativo della stesa Unione, coordinata dal “nostro” Stefano Bigolaro.
È stato un architrave importante per la prima delibera approvata in materia da un singolo Coa, quello di Bolzano, lo scorso 16 settembre, poi fatto proprio, con un successivo documento del 30 novembre, dalla Triveneta. Da lì è stata una catena di atti, dichiarazioni formali sottoscritte dagli Ordini, incluso il Coa di Milano, la cui delibera dello scorso 16 gennaio ha avuto una certa risonanza.
Tutte le rappresentanze dell’avvocatura affermano, in questi documenti, un concetto molto semplice: non è possibile applicare alle istituzioni forensi né il Codice degli appalti né in generale le disposizioni relative alle pubbliche amministrazioni, se non in quei rari specifici casi in cui la legge lo specifichi come strettamente necessario; e tutto questo – è di fatto il contenuto condiviso delle delibere approvate a raffica negli ultimi mesi – andrebbe chiarito con una norma che integri il Codice in questione, e ribadito una volta per tutte anche nella nuova legge professionale.
Lo stridore, si diceva: da una parte trattano l’avvocato come se fosse un fornitore di merce, dunque un soggetto riconducibile esclusivamente alla sfera del mercato e non al presidio di essenziali principi democratici; dall’altra, si vorrebbe lasciare le istituzioni degli avvocati ingabbiate in un limbo giuridico che finisce per lasciarle soffocate dalla burocrazia.
È una linea da Stato onnipresente, orientato più alla pretesa di controllo che alla libertà effettiva di cittadini e corpi sociali. Un’idea contro la quale gli avvocati, certamente, continueranno a battersi. Come sempre, perché si affermi non solo e non tanto la loro libertà e indipendenza, ma perché la si possa assicurare a tutti, per il benessere di ciascuno e per una democrazia che sia davvero orgogliosa di se stessa.