L’indagine che coinvolge la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il Sottosegretario Alfredo Mantovano, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio e il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi per favoreggiamento e peculato in relazione al rimpatrio del comandante libico Almasri in maniera trasversale, ma certamente non meno importante, ha riaperto un tema caro ai nostri lettori. Quello dell’assimilazione dell’avvocato con il proprio assistito.

Infatti la premier, nel dare la notizia dell’indagine, ha detto tra l’altro che l’iniziativa giudiziaria sarebbe partita “presumo a seguito di una denuncia che è stata presentata dall'avvocato Luigi Li Gotti, ex politico di sinistra molto vicino a Romano Prodi, conosciuto per aver difeso pentiti del calibro di Buscetta, Brusca e altri mafiosi”. Oggi ha rincarato la dose anche il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri: «Non si diventa per caso avvocato di Brusca e di Buscetta, perché quando ci sono grandi pentiti, e Brusca e Buscetta sono stati grandi assassini ma anche grandi pentiti. Generalmente gli avvocati che seguono queste cose sono avvocati graditi a chi deve governare i pentiti».

Da qui la solita retorica domanda che ci poniamo spesso: perché “profilare” l’avvocato e ricordare i suoi assistiti? Soprattutto da parte della premier Meloni, sempre impegnata in prima fila per la lotta contro la criminalità organizzata, che dovrebbe ricordare tra l’altro che uno come Buscetta è stato tra i primi mafiosi a cominciare a collaborare con la giustizia, durante le inchieste coordinate dal magistrato Giovanni Falcone. Le sue rivelazioni permisero, per la prima volta, una dettagliata ricostruzione giudiziaria dell'organizzazione e della struttura della mafia.

Quanto all'accusa di aver difeso mafiosi, Li Gotti ha ribattuto: «Ho fatto diverse cose tra cui anche la difesa di collaboratori di giustizia. Fu Falcone a chiedermi se ero disposto ad assumere la difesa di Francesco Marino Mannoia perché era rimasto senza difesa e io per dovere deontologico, ho accettato», ha spiegato. Ricordando poi: «Ho difeso tanti collaboratori di giustizia. Ma anche la famiglia Calabresi, la scorta di Moro e sono stato parte civile al processo di piazza Fontana».

Il presidente dell’Unione Camere Penali Francesco Petrelli dice al Dubbio: «Noi denunciamo da tempo l'impropria sovrapposizione fra la figura dell'avvocato difensore e i reati dei quali sono accusati i suoi assistiti al fine di attribuirgli uno stigma sociale. Senza entrare in alcun modo nelle valutazioni del contesto nel quale tale sovrapposizione è nuovamente intervenuta non si può che ribadire che le qualità morali o professionali ovvero l'indipendenza stessa di un professionista non possono e non devono essere messe in relazione con i reati e i contesti dei propri assistiti».

Il caso Li Gotti non è assolutamente il primo in cui un legale viene accusato per assistere un cliente considerato un “mostro” sociale. Certi indagati e imputati non avrebbero diritto alla difesa. Eppure la Costituzione dice altro, dovrebbe sapere Meloni, così attenta a leggere (e modificare) la Costituzione: “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” (articolo 24, comma 2). E come diceva il famoso avvocato francese Jacques Verges: «Je ne suis pas l’avocat de la terreur, mais l’avocat des terroristes. Hippocrate disait : “Je ne soigne pas la maladie, je soigne le malade”. C’est pour vous dire que je ne défends pas le crime mais la personne qui l’a commis». L'assimilazione tra l'avvocato e il suo assistito è purtroppo una delle tante distorsioni che intaccano il ruolo del difensore nella società.

Ciononostante, come ha scritto Ettore Randazzo, in “L'avvocato e la verità” (Sellerio Editore Palermo): «Solo i nemici della democrazia e della libertà possono temere l'avvocatura». E aggiunse: «Senza processo la giustizia dove starebbe? Nel lugubre simbolismo di un cappio penzolante col plauso raccapricciante di un gruppo di scalmanati dimostranti? Ci mancherebbe! Tutti devono essere processati e dunque difesi. Incondizionatamente; altrimenti basterebbe un'accusa grave e infamante per giustiziare sommariamente una persona, espellendola dal consesso civile; non possiamo di certo consentire una simile barbarie».