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Nuovi risvolti nel caso di Eluana Englaro, sulla cui vicenda bisogna ancora scrivere la parola fine. A distanza di 15 anni dalla sua morte, la Corte dei conti ha condannato in appello l’ex direttore generale della Sanità della Lombardia Carlo Lucchina al pagamento di circa 175mila euro all’Erario per aver impedito l’interruzione del trattamento che manteneva in vita Eluana. Si tratta della cifra che la Regione Lombardia aveva dovuto risarcire a Beppino Englaro, costretto a trasferire sua figlia in una struttura sanitaria a Udine, in Friuli, dove la donna fu alla fine libera di morire il 9 febbraio del 2009, a 39 anni, in seguito all’interruzione della nutrizione artificiale.
Per i giudici contabili, come si legge nella sentenza riportata dal Corriere della Sera, la decisione dell’ex dg Lucchini sul caso di Eluana fu mossa da «una concezione personale ed etica del diritto alla salute inteso come essenzialmente volto ad assicurare le cure più opportune per garantire il bene della vita della persona». Un rifiuto, il suo, «frutto di un’autoritativa e unilaterale concezione del diritto alla salute - argomenta la Corte dei conti -, che si è posto in esatta antitesi con il provvedimento definitivo del giudice civile e con la diversa rappresentazione da questi manifestata del diritto alla salute come diritto dell’ammalato di rifiutare le cure».
Simbolo delle battaglie sul fine vita, la storia di Eluana Englaro è stata a lungo al centro del dibattito, spaccando in due l’opinione pubblica. Appena ventenne, il 18 gennaio 1992, fu coinvolta in un gravissimo incidente d’auto che la costrinse in uno stato vegetativo permanente per 17 anni, immobilizzata in una clinica di Lecco e alimentata con un sondino nasogastrico. Sostegno che il padre chiese di staccare secondo la volontà espressa in vita da sua figlia, ovvero il desiderio di rifiutare qualunque “accanimento terapeutico” in condizioni simili. Di qui la battaglia legale intrapresa da Beppino Englaro, in qualità di tutore.
Diversamente dalle vicende che riguardano l’accesso al suicidio assistito, il nodo infatti riguardava la possibilità di interrompere i trattamenti secondo la volontà ricostruita di Eluana, ormai in stato di incoscienza, in quel quadro clinico che non prevedeva margini di cura e miglioramento. Dopo il no del tribunale di Lecco e della Corte d’Appello di Milano, il caso arrivò in Cassazione, che nel 2007 segnò una svolta sulla vicenda ammettendo la facoltà di interrompere i trattamenti in presenza di alcune condizioni e rinviando la decisione alla Corte d’Appello. Sulla base di quella sentenza, l’anno seguente, i giudici di Milano autorizzarono la sospensione dell’alimentazione forzata. Ma a quel punto nessuna struttura sanitaria era disposta ad assumersi la responsabilità di interrompere la nutrizione. Un’eventualità contro la quale si mossero politica e associazioni. Le Camere e la Regione Lombardia sollevarono un conflitto di attribuzione contro la Cassazione, ma i ricorsi furono giudicati inammissibili dalla Corte Costituzionale. Lo stesso Lucchini, allora direttore della Sanità Lombardia, si oppose con una nota licenziata nel 2008 nella quale si sosteneva che se i sanitari avessero dato seguito alla richiesta di staccare il sondino sarebbero venuti “meno ai loro obblighi professionali”, dal momento che le strutture sanitarie si occupano della cura dei pazienti.
Tappa dopo tappa, la vicenda divenne un vero e proprio caso nazionale e mediatico, tra ricorsi e battaglie politiche che videro in primo piano i Radicali a sostegno della famiglia Englaro. Il 22 dicembre del 2008 la Corte europea per i diritti dell’uomo respinse il ricorso di diverse associazione contro il decreto della Corte d’appello di Milano che autorizzava il distacco del sondino. Beppino Englaro si rivolse al Tar, che nel gennaio 2009 accolse la sua richiesta, ma la Regione Lombardia non diede corso alla sentenza.
In quello stesso anno l’epilogo a Udine, dopo che il governo Berlusconi aveva tentato di emanare un decreto legge ad hoc: Eluana Englaro morì nell’unica struttura disposta a mettere in pratica il protocollo autorizzato dai giudici di Milano. La Regione Lombardia fu condannata a pagare circa 175 mila di euro per i danni subiti dalla famiglia Englaro, costretta a sostenere il trasferimento. Successivamente la Corte dei conti ha avviato un procedimento erariale nei confronti di Lucchina, il quale è stato assolto in primo grado, con il giudizio poi ribaltato in appello.
«Non è stata un’obiezione di coscienza, ma sono state applicate le direttive arrivate anche dell’avvocatura regionale», commenta al Corriere della Sera l’ex dg, che valuterà se ricorrere in Cassazione. «Potevano evitare tutto ciò che hanno combinato, ora si rendono conto, è chiaro che hanno sbagliato e ne devono rispondere», dice all’Ansa Beppino Englaro appresa la notizia. «Loro hanno ostacolato, io ho agito nella legalità - aggiunge - chi ha ostacolato se la vede ora. Sapevo di avere un diritto ed era chiaro che lo ostacolavano, tanto che sono dovuto uscire dalla regione. Ora sono problemi loro, io giustizia me la sono dovuta fare da me, sempre nella legalità e nella società, loro hanno commesso qualcosa che non dovevano commettere. Per me era tutto chiaro anche allora, li ho dovuti ignorare e andare per la mia strada».