In questi giorni, lo scandalo legato allo spyware Graphite della società israeliana Paragon Solutions ha sfiorato la Polizia penitenziaria. Durante il question time alla Camera di mercoledì scorso, si è rotto il “silenzio” che il governo – tramite Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio – aveva invocato appena 24 ore prima, appellandosi all’articolo 131 del regolamento parlamentare e definendo il caso come “classificato”, dunque di competenza del Copasir. A rispondere all’interrogazione di Italia Viva è stato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, il quale ha confermato che nel 2024 nessuna persona è stata intercettata da strutture finanziate dal suo ministero né dalla Polizia penitenziaria.

La risposta è chiara, ma anche scontata, poiché il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non può assolutamente disporre di tali strumenti, e la Polizia penitenziaria (pensiamo, ad esempio, al Nucleo Investigativo Centrale) opera come polizia giudiziaria per conto delle procure. Tuttavia, il guardasigilli ha precisato che, nel 2024, non è mai stata effettuata alcuna intercettazione da parte di questo corpo di polizia. Teoricamente, però, potrebbe non esserne a conoscenza, dato che le indagini sono giustamente coperte dal segreto istruttorio. Basta considerare le ultime indagini, concluse lo scorso gennaio e relative allo scandalo del carcere di Rebibbia, condotte dal Nic con il coordinamento della Procura di Roma. Inoltre, potrebbero essere state svolte altre indagini da altre procure nel corso dell’anno da poco concluso, di cui attendiamo ancora l’esito. In ogni caso, non si può a priori escludere che il famigerato trojan sia stato utilizzato. Per ora, rimane solo un’ipotesi.

Perché spunta la polizia penitenziaria? 

Lo scandalo Paragon ha attirato l’attenzione globale dopo la denuncia di WhatsApp di una campagna di cyberspionaggio contro 90 giornalisti e attivisti in 20 paesi, realizzata con spyware della società israeliana. In Italia, i casi noti riguardano Luca Casarini, fondatore di “Mediterranea Saving Humans”, e il giornalista Francesco Cancellato, direttore di Fanpage. Le rivelazioni hanno sollevato interrogativi sul ruolo delle autorità italiane, in particolare dei servizi segreti, nel monitoraggio di dissidenti.

Il governo, con una nota del 5 febbraio, ha escluso categoricamente il coinvolgimento dell’intelligence (che comporterebbe reato) e ha rivelato un’indagine dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN): i numeri spiati in Italia sarebbero 7, ma le identità – tranne due - restano ignote per questione di privacy. Martedì 11 febbraio, il direttore dell’Aise (servizio segreto per l’estero) Giovanni Caravelli, ascoltato dal Copasir ha confermato: i servizi non c’entrano.

Ma allora perché si parla di un corpo di polizia? Tutto parte da un articolo del quotidiano israeliano Haaretz, in cui si rivelava che la società Paragon aveva stipulato contratti con due entità italiane: un’organizzazione di intelligence e un’agenzia di polizia. I servizi segreti hanno confermato di aver fatto uso di tali strumenti (ma non contro i giornalisti), mentre rimane ancora oscuro chi sia esattamente questa “agenzia di polizia”. La traduzione è letterale, ma, essendo un giornale straniero, occorre spiegare il significato: si tratta sicuramente di un’autorità statale incaricata di mantenere l’ordine pubblico e di far rispettare le leggi.

In Italia, “l’agenzia di polizia” principale è la Polizia di Stato, che opera sotto la direzione del ministero dell’Interno. Oltre a essa, esistono altre forze di polizia con competenze specifiche, come l’Arma dei Carabinieri e la Guardia di Finanza, tutte in grado di svolgere il compito di polizia giudiziaria, ossia condurre indagini – anche tramite intercettazioni – per conto delle procure. Per assurdo, in certi casi anche i Vigili del fuoco possiedono la qualifica di polizia giudiziaria.

Dal momento che è emersa questa notizia, le maggiori forze di polizia hanno smentito l’informazione, ad eccezione del Dap. Per questo motivo, è sorto il dubbio – espresso in particolare da Matteo Renzi – sull'identità di questa “agenzia”, responsabile degli accordi con Paragon, sospettata di essere la Polizia penitenziaria.

Il ministro Nordio ha chiarito che il Dap non ha, e soprattutto non può stipulare, alcun contratto con la società in questione. Chiaro. Ma c’è da ribadire che è lecito supporre, a livello esclusivamente ipotetico, che la Polizia penitenziaria potrebbe aver utilizzato tale tecnologia per conto di qualche procura. Non a caso, Matteo Renzi ha anticipato che chiederà l'accesso agli atti relativi alle spese per intercettazione di tutte le procure. In questo modo, si potrà almeno fare chiarezza sul punto. Resta però la domanda delle domande: chi ha intercettato illegalmente i sette giornalisti in Italia? Finora la smentita ufficiale è arrivata soltanto dai Servizi segreti.

Rimane ancora in sospeso l’identità del secondo cliente. Sicuramente si tratta di un corpo di polizia giudiziaria, ma sarebbe gravissimo se fosse stato effettuato un accesso illecito. L’idea che dei giornalisti possano essere messi sotto indagine legale tramite l’uso di trojan non è del tutto improbabile – come dimostrato, ad esempio, per Michele Santoro e Guido Ruotolo nel caso di Maurizio Avola relative alla questione della strage di Via D’Amelio (non parliamo del trojan di Paragon). Seppur criticabile – visto che per farlo si è dovuto ricorrere a una ipotesi di reato grave successivamente archiviata – quest’ultima azione resta del tutto legittima.

Le tre ipotesi

Rimane però la domanda fondamentale: chi ha intercettato illegalmente i sette giornalisti in Italia? In una improvvisata conferenza stampa dello scorso 11 febbraio, il sottosegretario Mantovano non ha escluso usi illeciti, ma non attribuibili ai servizi. Sul possibile coinvolgimento di una polizia, ha rimandato all’autorità giudiziaria.

Rimane il dubbio che questo misterioso corpo di polizia giudiziaria possa aver svolto un’indagine in collaborazione con qualche altra agenzia estera. Il sospetto sussiste perché almeno 90 giornalisti e attivisti sono stati spiati, principalmente in Europa. In Italia sono 7, di cui conosciamo l’identità di solo due. Se pensiamo a Casarini, impegnato nel soccorso dei migranti nel Mediterraneo, c’è anche David Yambio, attivista per i diritti dei rifugiati libici, che ha ricevuto una notifica da Apple riguardante un tentativo di intrusione tramite spyware sul suo iPhone. Il filo conduttore è l’attivismo sull’immigrazione.

Le ipotesi in campo sono quindi tre. La prima è l’esistenza di una rete internazionale di spionaggio che, in qualche modo, fornirebbe informazioni sensibili su alcuni soggetti – e ciò sarebbe grave per la sicurezza nazionale. La seconda ipotesi è che sia stata una semplice operazione giudiziaria per conto di qualche procura. La terza è che alcuni elementi infedeli all’interno del corpo di polizia giudiziaria abbiano approfittato di una legittima indagine per captare illegalmente informazioni tramite il software e rivenderle a qualcuno. Quest’ultimo caso non sarebbe una novità.