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Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica
Finalmente c’è un settore della magistratura che lo dice: sulla riforma Cartabia c’è un prevalere di toni allarmistici. Dopo le prese di posizione di singole, autorevoli figure dell’ordine giudiziario (come Raffaele Cantone, che ne ha parlato anche in un’intervista al Dubbio), una corrente dell’Anm si espone e si schiera a favore delle norme volute dalla ex guardasigilli: si tratta di Magistratura democratica, uno dei due gruppi progressisti delle toghe – l’altro è Area – che conferma, con un documento sul nuovo assetto della giustizia penale, il proprio orientamento aperto sulle riforme. Soprattutto, Md si rivela ancora una volta contraria ai riflessi pavloviani giustizialisti, e capace di guardare dunque a una sistema più chiaramente ispirato a quell’approccio “costituzionale” difeso innanzitutto dall’avvocatura. Sembrerebbe paradossale, considerato che garantismo e diritto penale “liberale” sono prospettive culturali intimamente legate fra loro: sembrerebbe paradossale considerato che l’ispirazione liberale non dovrebbe essere esattamente il riferimento di Md, la corrente dal tratto più chiaramente “di sinistra” dell’Anm. Ma in realtà l’analisi del gruppo guidato dal segretario Stefano Musolino dimostra ancora una volta come il giustizialismo non sia un’opzione naturale, per la sinistra. Aspetto sul quale lo stesso Pd dovrebbe forse riflettere, quando si schiera contro un guardasigilli garantista come Carlo Nordio o converge con il Movimento 5 Stelle su riforme come quella dell’ergastolo ostativo.
In ogni caso, l’esecutivo di Md ha diffuso tre giorni fa un documento analitico sulla riforma penale di Cartabia in cui si arriva a due conclusioni: innanzitutto, a proposito della perseguibilità a querela estesa a un nuovo catalogo di reati, si nota come la scelta possa «rispondere all’interesse della giustizia». E più in generale, il gruppo ritiene che la riforma, «pur migliorabile», sia «da salutare positivamente», anche se non soprattutto per la parte sul «sistema sanzionatorio». Vale a dire le norme della “legge Cartabia” che ampliano i casi di «applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto» o «le ipotesi di possibile ammissione alla messa alla prova», e che introducono «nuove pene sostitutive».
L’analisi è ampia, approfondita. E ha forse il solo limite di non essere aggiornata alle novità previste dal ddl “correttivo” varato la settimana scorsa in Consiglio dei ministri, con il quale è stato posto rimedio alla questione dei reati perseguibili a querela che, a prescindere dalla loro relativamente bassa offensività, possono comunque essere commessi in un contesto mafioso, in cui la vittima è tendenzialmente dissuasa dallo sporgere querela. Com’è noto, il testo messo a punto dal guardasigilli Nordio ripristina la perseguibilità d’ufficio laddove compaiano metodo o finalità mafiosi. Ma al di là di questo, è molto interessante anche l’appello conclusivo di Md sulla riforma Cartabia: che, notano le toghe progressiste, fissa «obiettivi ambiziosi e impegnativi», consegnati a «tutti gli operatori giudiziari: funzionari dell’amministrazione penitenziaria, magistrati e avvocati». Ciascun operatore, dunque, «sarà chiamato a esercitare responsabilmente la propria funzione per avvicinare l’esecuzione penale al “volto costituzionale della pena” (Corte costituzionale, sentenza n. 50 del 1980) che la Carta ci chiede esplicitamente di ricercare. Nessuno si senta escluso».
Che si tratti di una lettura controcorrente rispetto al mainstream giornalistico e al resto dell’Anm, lo si coglie già nello spunto “di cronaca” da cui Magistratura democratica parte: la recente riforma penale, ricorda il documento, ha suscitato «reazioni molto accese, tanto nell’opinione pubblica quanto tra gli operatori giudiziari: con la consueta oscillazione del pendolo, tra chi vuole semplicemente più carcere e chi pensa invece che lo strumento del diritto penale vada usato in maniera ridotta, ma efficace e coerente con la Costituzione e i diritti». E appunto, nel “pendolo” fra “panpenalisti” e “liberali”, nota Md, «prevalgono i toni allarmistici e sta affermandosi l’idea che la riforma indebolirà la risposta statuale contro il crimine, impedirà di arrestare pericolosi delinquenti e mina la certezza della pena».
Da qui l’analisi sui due aspetti chiave dell’improcedibilità a querela e della «introduzione nell’ordinamento di un catalogo di pene sostitutive, da irrogare in alternativa alla reclusione». Innanzitutto si osserva, come detto, che «rimettere alla persona offesa la scelta sulla perseguibilità di un certo reato – quando riguarda un bene giuridico disponibile e, comunque, leso in modo non irreversibile – possa rispondere all’interesse della giustizia». Mentre la seconda parte del documento, concentrata sulle pene extracarcerarie e in generale sulla “deflazione sanzionatoria”, si ricorda, fra l’altro, come il ricorso a soluzioni “sostitutive” della detenzione (tra gli aspetti a cui la stessa Marta Cartabia più ha tenuto a introdurre) fosse necessario per evitare due conseguenze negative: da un lato «le carceri sovraffollate» non in grado di garantire «il reinserimento sociale», dall’altro la condizione di «alcune decine di migliaia di persone che – essendo state condannate a pene detentive brevi in astratto eseguibili – sono in attesa di vedere esaminate da tribunali di sorveglianza sempre più oberati le loro richieste di accesso alle misure alternative alla detenzione (si allude al fenomeno dei cosiddetti liberi sospesi)».
Sono aspetti ben descritti nelle stesse relazioni tecniche che accompagnano la riforma. E che vengono finalmente valorizzati anche da chi, come i magistrati, quelle norme sarà chiamato a far funzionare.