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Claudio Foti
Altro che “lupo di Bibbiano”: la consulenza che ha attribuito a Claudio Foti la responsabilità di aver provocato un disturbo borderline nella sua giovane paziente è generica e priva di basi scientifiche. Di più: il gup che ha condannato in primo grado lo psicoterapeuta ha recepito «incondizionatamente le conclusioni rassegnate dal consulente del pm», che si è limitato «a una disamina degli elementi raccolti nella fase investigativa e all’effettuazione di un incontro» con la paziente e sua sorella quando le stesse erano già state ascoltate dai carabinieri senza ancorarsi aduno straccio di prova.
A scriverlo è il giudice Andrea Sacchetti, componente del collegio (presieduto da Sonia Pasini) che lo scorso 6 giugno ha assolto Foti, lo psicoterapeuta finito alla gogna nel processo “Angeli e Demoni”. Secondo le motivazioni della sentenza, il professionista non ha provocato alcun disturbo nella sua paziente all’epoca 17enne, finita da lui per gli abusi subiti durante l’infanzia e l’adolescenza, né ha concorso nell’abuso d’ufficio contestato per l’affidamento del servizio di psicoterapia e, infine, come già stabilito in primo grado, non ha tentato di frodare l’autorità giudiziaria.
Per la quarta sezione della Corte d’Appello di Bologna, invece, è la diagnosi con la quale Foti era stato accusato di lesioni a essersi risolta «in una valutazione priva di riferimenti agli strumenti di indagine prescritti dal “Dsm 5” (la “bibbia” degli psicoterapeuti, ndr) e dalla letteratura scientifica, venendo riferita in maniera essenzialmente apodittica, stante la radicale assenza di una qualsivoglia menzione, anche solo attraverso frasi di stile, del paradigma e dei criteri seguiti». Insomma, una pura e semplice convinzione fondata sul nulla, nonostante la diagnosi di una malattia necessariamente debba basarsi su «elementi verificabili, conoscibili e, per ciò stesso, accompagnati dall’indicazione delle fonti che ne consentano il controllo». Un errore in cui non è incorsa solo la consulente, ma anche il giudice: «La radicale carenza dei necessari passaggi di verifica e riscontro qualifica la sentenza in termini di mera intuizione dell’organo giudicante - si legge ancora -, in pieno spregio dei più recenti arresti giurisprudenziali in precedenza ampiamente citati».
Un atto d’accusa pesante: la condanna è stata infatti pronunciata in «totale assenza di riferimenti a leggi di copertura e ai sottostanti studi» e del grado «di consenso da parte della comunità scientifica che dovrebbe caratterizzare il dato scientifico». Consenso invece raccolto da Foti, che si è visto sostenere da oltre 300 professionisti a difesa della sua psicoterapia. D’altronde, evidenzia la sentenza, sarebbe bastato consultare la letteratura scientifica in materia per scoprire che il “Disturbo borderline di personalità” si forma nei primi anni di vita e si manifesta nell’adolescenza e nell’età adulta. Fonti scientifiche depositate, invece, dall’avvocato Luca Bauccio e che riconducono «l’eziopatogenesi a fattori legati all’età infantile, con riferimento ad ambienti familiari invalidanti, abusi sessuali o ipotesi di violenza assistita».
Nel caso della giovane in cura presso Foti, tali fattori c’erano tutti ben prima della terapia, evidenzia la sentenza, come confermato anche dalla madre della stessa paziente. E la consulenza di Rossi, si legge, non fornirebbe «elementi che consentono di affermare che la stessa abbia effettuato la propria diagnosi avvalendosi degli strumenti recepiti dalla comunità degli psicologi». Conclusioni che valgono anche per il “disturbo depressivo persistente con ansia”, anch’esso causato, secondo l’accusa, da Foti, rispetto al quale «la consulenza, così come la sentenza, non pone alcuna relazione — né si interroga minimamente al riguardo — tra il consumo di sostanze stupefacenti pesanti, quali l’acido lisergico, e la depressione, l’ansia, le manifestazioni di rabbia».
E per quanto riguarda la presunta frode processuale, esclusa logicamente anche dalla cronologia degli eventi, è «evidente che se l'imputato avesse orientato la propria attività terapeutica al fine di trarre in inganno l’Ag minorile non avrebbe documentato tramite registrazione le proprie sedute, consegnando quindi all'Autorità giudiziaria che procedeva nei suoi confronti i relativi files». Il suo fine era quello di accreditarsi come professionista, al più, ma non quello di danneggiare o truffare qualcuno. Così come manca la prova di un accordo collusivo in merito all’abuso di ufficio - che pure viene valorizzato dalla Corte -, reato che verrà meglio approfondito a Reggio Emilia, dove è in corso il processo ordinario. Nonostante le delibere e i documenti portati a processo dalla difesa, a dimostrazione dell’esistenza di un procedimento amministrativo sequenziato da più atti, per i giudici d’appello gli incarichi non erano legittimati da procedure formali.
Punto non condiviso dall’avvocato Bauccio: «La creazione del servizio - spiega al Dubbio - vanta di passaggi amministrativi formalizzati in una delibera del 6 maggio 2016, n.45, con la quale si è deciso di adeguare un immobile da usare per “progettare attività ed interventi di sostegno soprattutto psicologico”». Ma non solo: c’è «la determina dirigenziale che rimandava direttamente al progetto “La Cura”, che organizzava quel servizio», l'istituzione «di un bando che veniva vinto dall'associazione che si impegnava a fare svolgere il servizio di psicoterapia ad “Hansel & Gretel”», la sottoscrizione «dell'accordo multilaterale che espressamente richiamava il progetto “La Cura”» e infine «la delibera dell'Unione del 16 settembre 2016 n. 92, che ratificava la sottoscrizione dell'Accordo multilaterale. È chiaro - continua Bauccio - che tutto si può dire ma non che non esistesse una procedura. Un incarico siffatto non è per definizione “a voce”. Non può esserlo. Potrà avere profili di illegittimità, tutti da dimostrare, ma non è e non sarà mai a voce».
In ogni caso, Foti non avrebbe assunto alcun comportamento diretto a determinare o ad istigare il pubblico ufficiale, non avrebbe preso alcun accordo e non avrebbe fatto alcuna pressione, limitandosi a eseguire le prestazioni che per i giudici gli erano state «illecitamente affidate». Insomma, non avrebbe fatto nulla, se non il proprio lavoro. «Col naufragio dell'accusa a Foti - conclude Bauccio - naufraga un processo che non aveva ragione di esistere e una persecuzione mediatica senza precedenti verso un innocente». Un innocente condannato «“in spregio” alle più elementari regole di diritto e di tecnica diagnostica. Speriamo che questa sentenza sia da monito alla facili semplificazioni e alle demonizzazioni senza scienza e spesso, mi riferisco a soggetti terzi rispetto ai magistrati, anche senza coscienza che hanno dominato questa vicenda».