Una sentenza della Corte Costituzionale ad personam, ritagliata su misura perché si possa celebrare in Italia il processo nei confronti dei torturatori egiziani che sette anni fa assassinarono Giulio Regeni. Un provvedimento che l’ex ministra Marta Cartabia, che della Consulta fu anche Presidente, definisce sentenza “additiva”, un modo tecnico ma anche elegante per dire che si è creata un’eccezione alla norma generale per cui nessuno può essere processato se non informato del fatto che si sta procedendo nei suoi confronti.

In italiano questa eccezione, che vale per un solo caso, si chiama anche “deroga” o “violazione” della regola che dovrebbe tutelare il cittadino rispetto alla forza dello Stato e anche della magistratura. Non ti posso portare in giudizio senza dirtelo, senza avvertirti del fatto che sto per processarti, dicono il codice di procedura e la Costituzione. Un principio che sembrerebbe inviolabile. Tanto che nessun Parlamento in questi anni, pur con la commozione per la sorte tragica di questo ragazzo italiano assassinato e lo sdegno per il comportamento del regime egiziano di Al Sisi, che ha di fatto sottratto alla giustizia italiana i quattro agenti di servizi segreti ritenuti responsabili del sequestro, delle torture e dell’uccisione di Giulio Regeni, ha mai osato metter mano a un principio garantistico del nostro codice. E alla sacralità dell’articolo 111 della Costituzione sul giusto processo.

Dodici righe, piuttosto esplicite, pur in attesa delle motivazioni, con cui la Corte “aggredisce” l’articolo 420 bis comma 3 del codice di procedura penale e stabilisce che, in questo caso, sia possibile derogare al principio europeo e internazionale per cui il processo penale può essere celebrato solo nei confronti di un imputato che sia stato informato del fatto che si sta procedendo nei suoi confronti. Anche se decide di non parteciparvi. Esistono infatti i processi celebrati in contumacia, cioè in assenza dell’imputato. Nel caso di Giulio Regeni, dice l’Alta Corte, siamo però in presenza di un caso di tortura, previsto e definito dell’articolo 1 comma 1 della Convenzione di New York. Inoltre, del “caso Regeni” si è scritto e parlato molto in Egitto in questi anni. Come a dire che ai quattro agenti dei servizi segreti ritenuti responsabili da parte dell’autorità giudiziaria italiana dovrebbero come minimo esser fischiate le orecchie. Qualcosa avranno ben sentito dire. Ma non tutto è così rigoroso, in questa decisione. E qualcuno non ha potuto non notarlo, e lo dice con un’intervista a Repubblica.

Il professor Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale alla Statale di Milano, che fu consigliere giuridico della ministra Cartabia, definisce la sentenza addirittura “ad regenim”, cioè una regola ad hoc costruita appositamente per consentire al processo, che era stato bloccato dalla Corte d’appello di Roma e dalla Cassazione che aveva annullato il rinvio a giudizio degli imputati disposto dal gup, di essere celebrato. Il professore non lo dice esplicitamente, ma è chiaro che la Consulta si è sostituita al governo e al parlamento con una sentenza “politica”, finalizzata a un atto più sostanziale che formale, quale il processo dovrebbe essere. Un altro giurista cui l’anomalia non è sfuggita è l’avvocato Davide Steccanella, uno che i processi in contumacia li ha sulla punta delle dita, anche perché è il difensore del terrorista Cesare Battisti, a lungo latitante in Francia e poi in Brasile, che ha potuto estradarlo solo dopo un cambio di regime. “E’ un principio barbaro, una vera stortura – dice al Dubbio - pensare di processare una persona senza averlo potuto avvertire. Mi rendo conto della tragedia della famiglia Regeni, ma se l’imputato è assente al processo, deve esserlo solo per scelta, non perché disinformato”.

Del resto anche lo stesso concetto di “contumacia” è messo in discussione da ordinamenti come quello della Francia e degli Stati Uniti, dove non si celebrano processi in assenza dell’imputato. In Italia non è così, lo stesso caso di Battisti lo dimostra, però la scelta della lunga latitanza è stata solo sua. Ora, questi quattro agenti egiziani che la magistratura italiana considera torturatori e assassini, hanno o no diritto di sapere che tra qualche mese saranno processati in Italia? Sappiamo bene che se sono riusciti a rendersi irrintracciabili, tanto che non se ne conoscono gli indirizzi, è perché godono di evidenti coperture politiche. Il che apre un problema di relazioni tra il governo Meloni e il regime di Al Sisi. Il ministro degli esteri Antonio Tajani ha finora mantenuto un atteggiamento cauto. Del resto il premier egiziano aveva di recente avanzato un gesto distensivo con la concessione della grazia a Patrick Zaki, studente “adottivo” dell’università di Bologna.

Si cammina su un sottile strato di ghiaccio. Secondo il professor Gatta l’Egitto potrebbe anche contestare all’Italia il principio del ne bis in idem (non puoi essere processato due volte per lo stesso fatto) dal momento che, a quanto pare, una qualche forma di giudizio ci sarebbe già stata in Egitto. Quello che comunque qui da noi stupisce, ma forse non più di tanto, è l’entusiasmo non solo (e giustamente) da parte della famiglia Regeni e della loro legale Alessandra Ballerini, ma di tutto quel mondo “democratico” che strillava indignato a ogni presunta proposta di legge ad personam in favore di Silvio Berlusconi. Dimenticando che le leggi non sono mai per un solo soggetto ma, una volta emanate, si indirizzano al “signor chiunque”.

Questa sentenza della Corte Costituzionale invece, è proprio l’omaggio a una sola persona, a un solo caso, a un solo processo. Come dice la presidente emerita dell’Alta Corte, Marta Cartabia, cui lasciamo l’ultima parola: “Mi pare che la Corte abbia fatto una sentenza ‘additiva’, creando una regola ad hoc, di eccezione alla norma generale, che rimane intatta, per consentire ai giudici di andare avanti in questo caso eccezionale. Spero sia di sollievo ai genitori”. Ci associamo.