Da un lato, «non può ritenersi indebita la mancata adozione di atti e provvedimenti attuativi del piano endemico nazionale e regionale che, come emerso dalle complesse indagini svolte, sarebbero comunque risultati inidonei, nel caso specifico, a fronteggiare un’epidemia di livello mondiale, tale da suggerire, in allora, di predisporre un nuovo piano con misure più incisive». Dall’altra, «l’adozione di tali piani emergenziali non può ritenersi atto da compiere “senza ritardo”, come richiesto dalla norma in commento, stante il fatto che l’obbligo di attivarsi senza ritardo per il pubblico ufficiale sussiste solo in relazione ad atti per cui non residua alcuna discrezionalità (come di fatto non avvenuto nel caso di specie, trattandosi di attività, al contrario, del tutto discrezionale). Invero, la decisione di attivare o meno il Piano pandemico nazionale era del tutto rimessa alla valutazione discrezionale del governo, anche perché l’accordo Stato/Regioni - con cui era stato adottato il suddetto Ppn - costituisce una fonte normativa secondaria e, come tale, non giuridicamente vincolante». È con queste motivazioni che il gip di Milano Rossana Mongiardo ha disposto l’archiviazione del direttore generale welfare della Regione Lombardia Luigi Cajazzo e dell’ex assessore al Welfare Giulio Gallera. I due erano indagati dalla procura di Bergamo per “rifiuto di atti d’ufficio” per la gestione dell’emergenza Covid. «Un evento, imprevisto ed imprevedibile», ha scritto il giudice, di fatto sancendo l’inconsistenza di un’inchiesta che il procuratore Antonio Chiappani aveva definito doverosa per «soddisfare la sete di verità della popolazione». Una vicenda, spiega oggi l’avvocato Guido Camera, difensore di Gallera, che ha rappresentato la «tempesta perfetta per la presunzione di innocenza», nonché «la prova inequivocabile che la tutela delle vittime non va messa in Costituzione, per evitare di annientare i cardini del giusto processo».

Per Camera si è trattato di «uno tsunami giudiziario pari alla pandemia, con tutte le dovute differenze». E sin da subito aveva assunto una connotazione politica fortissima: il consulente dell’accusa era infatti Andrea Crisanti, oggi parlamentare dem, per il quale gli indagati rappresentavano dunque avversari politici. Una volta chiusa l’indagine, le difese avevano contestato la competenza del Tribunale ordinario e gli atti erano finiti al Tribunale dei ministri, che smontò totalmente le accuse. La consulenza di Crisanti, infatti, non era stata in grado di stabilire il nesso causale tra le presunte omissioni relative al piano pandemico, la mancata istituzione della zona rossa nei comuni di Alzano Lombardo e Nembro e il decesso delle vittime dei primi mesi di pandemia, 4mila morti circa ritenute evitabili dall’esperto. Che però non era riuscito a dimostrare la sua tesi, già generica: «Il vizio di fondo che caratterizza l’accusa», aveva sottolineato Camera nella propria memoria, è quello «di essere fondata esclusivamente sulla consulenza tecnica del professor Crisanti», che è però «uno studio teorico che, per espressa ammissione dello stesso Crisanti, non si è estesa al nesso di causa tra le condotte omissive contestate e i singoli decessi indicati nel capo di incolpazione». Ed era la stessa consulenza, a pagina 55, a chiarire il punto: di fronte al quesito formulato dalla procura sul nesso causale, Crisanti si era lapidariamente dichiarato «non competente in materia». La catena del contagio delle persone decedute, dunque, è rimasta «del tutto ignota», evidenziava Camera.

L’archiviazione disposta dal gip, sottolinea ora il legale, «attesta non solo che non c’era nessun reato, ma che era fuori luogo la narrazione colpevolista dell’epoca, quando contro gli indagati si era sviluppato un odio personale. È la prova - aggiunge - di come a fronte della gravità del fenomeno fosse necessario un approccio scientifico e fondato non solo sul rispetto della presunzione d'innocenza, ma su un mutuo rispetto degli equilibri istituzionali». Attorno a questa vicenda si è infatti giocata una battaglia politica enorme, soprattutto in Lombardia, dove il tema della gestione dell’emergenza è stato usato dalle opposizioni per costruire «una narrazione ipercolpevolista, quando ancora non avevamo neanche l’avviso delle indagini, caratterizzate poi dalla presenza di un consulente che è stato sia candidato sia eletto nel partito politico che aveva costruito quella stessa narrazione. È stato un vero cortocircuito del sistema, la tempesta perfetta». La magistratura giudicante si è però dimostrata «indipendente e terza»: dare risposte al territorio, evidenzia ancora Camera, «non è il ruolo assegnato alla magistratura dalla Costituzione». Da qui l’ulteriore riflessione sulla proposta di inserire le vittime in Costituzione: «La magistratura inquirente - sottolinea il legale - si è sentita in dovere morale di dare delle risposte alle ansie di giustizia, che erano ansie di giustizia colpevolista nate dal dolore. Certamente comprensibile, ma non è quello il ruolo della magistratura, che ha fatto un’indagine enorme con costi non solo diretti, ma anche collaterali, considerando quanto vissuto dagli indagati, costretti a subire una campagna d’odio devastante». Una riflessione che, ora, andrebbe estesa anche alla Commissione parlamentare che pretende di processare politicamente chi, all’epoca, si trovò ad affrontare una situazione senza precedenti. Un’ulteriore furia colpevolista agitata, questa volta, dalle vittime di quella giudiziaria.