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L’ eutanasia è «un crimine contro la vita umana perché l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente». Dal Vaticano arriva una condanna radicale: l’eutanasia, ma anche il suicidio assistito, rappresentano un atto imperdonabile, addirittura un reato. Al punto di condannare moralmente anche i Paesi che hanno già legittimato tali atti, negando «i confini etici e giuridici dell’autodeterminazione del soggetto malato». Una considerazione estrema, con un’invasione del campo giudiziario che pure non spaventa la Santa sede, che decide di andare comunque oltre le proprie competenze. Il monito è contenuto nella lettera “Samaritanus bonus” della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nella fasi critiche e terminali della vita. Un documento approvato da Papa Francesco lo scorso giugno ma reso pubblico solo ieri, con il quale si ribadisce la ferma condanna verso ogni forma eutanasica e di suicidio assistito.
Un no netto, dunque, nonostante quanto stabilito a settembre del 2019 dalla Consulta, che ha stabilito i confini di liceità dell’aiuto al suicidio. Per il vaticano si tratta però di un puro e semplice atto omicida e malvagio, «che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva», che nessuna autorità - e quindi neppure la Corte costituzionale o il Parlamento -, può consentire. Alla base ci sarebbe l’incapacità odierna dell’uomo a cogliere il valore della vita, a partire da un «uso equivoco del concetto di “morte degna” in rapporto con quello di “qualità della vita”», di fatto stravolti da una prospettiva utilitaristica. E stravolto sarebbe anche il concetto di «compassione», per chi, come ad esempio il radicale Marco Cappato, che ha aiutato, tra gli altri, dj Fabo a porre fine alla propria sofferenza, avrebbe confuso la compassione con il «provocare la morte». Per il Vaticano, il vero senso di tale qualità consisterebbe nel sostenere il malato, offrendogli affetto e mezzi per alleviare la sua sofferenza. «Inguaribile non è mai sinonimo di incurabile», si sottolinea cosicché nemmeno di fronte alla sofferenza sconfinata di chi non potrà mai alleviare il proprio dolore fisico sarà possibile legittimare alcuno ad «attentare contro la vita di un essere umano, anche se questi lo richiede».
Ad entrare in gioco sarebbe il concetto di libertà, che tale non sarebbe per chi, condizionato dalla malattia e dal dolore, non sarebbe in grado di riconoscere «il valore della sua vita». Ma la contraddizione della “Samaritanus bonus” arriva laddove ribadisce anche il no all’accanimento terapeutico, a 14 anni dalla “condanna” della Chiesa a Piergiorgio Welby, morto proprio per aver rifiutato di continuare le cure. Secondo la lettera, nell’imminenza di una morte inevitabile «è lecito in scienza e coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita». Ma senza, per ciò, acconsentire ad una sospensione delle «cure efficaci per sostenere le funzioni fisiologiche essenziali, finché l’organismo è in grado di beneficiarne». Mentre per quanto riguarda le cure palliative, per il Vaticano si tratta di uno «strumento prezioso e irrinunciabile», invitando, dunque, ad un «deciso impegno» per diffonderle e attuarle «come approccio integrato di cura».
Ma non solo: per il Vaticano va condannato anche l’uso «a volte ossessivo della diagnosi prenatale», considerata come pratica selettiva e, quindi, contraria alla dignità della persona, in quanto «espressione di una mentalità eugenetica», cosa che, ovviamente, si associa alla perenne condanna dell’aborto, «uccisione deliberata di una vita umana innocente» e come tale «mai lecito». Per la Chiesa è però legittima la «sedazione come parte della cura che si offre al paziente, affinché la fine della vita sopraggiunga nella massima pace possibile», mentre diventa un peccato qualora sia un modo per causare «direttamente e intenzionalmente la morte». Ma anche per il Vaticano «in alcuni casi tali misure possono diventare sproporzionate», o perché non più efficaci o perché i mezzi per somministrarle creano un «peso eccessivo e procurano effetti negativi che sorpassano i benefici». Da qui la necessità di prevedere «un supporto adeguato ai familiari», affinché non si scoraggino e soprattutto non vedano come unica soluzione l’interruzione delle cure.