«Voglio richiamare le parole della responsabile delle educatrici Roberta Chierici rispetto allo stupore una volta appreso dell’indagine dai media. Una teste né sospettata né sospettabile di collusione con i demoni di questo processo, citata dalla pubblica accusa, e che pure apertamente riferisce di timori che hanno spiazzato gli operatori perché tutti stavano lavorando a difesa dei bambini». Inizia così la seconda giornata di arringa dell’avvocato Nicola Canestrini, difensore dell’assistente sociale Francesco Monopoli, per il quale la pm Valentina Salvi ha chiesto una condanna a 11 anni e mezzo nel processo sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza. Un processo nel quale, ha evidenziato Canestrini, non vi è prova di pressioni o falsificazioni e non vi è traccia di un “sistema” organizzato per allontanare i bambini da famiglie innocenti. Canestrini è partito da un fatto: «È un unicum nella mia storia professionale, e forse di molti difensori, aver rinunciato a tutti i testimoni. Era inutile: l’accusa ha fallito l’onere probatorio. Per questo abbiamo deciso di non appesantire inutilmente una istruttoria dibattimentale già dispendiosa». Istruttoria dalla quale non sarebbero emerse prove contro, ma a favore dell'innocenza degli imputati. «Le relazioni venivano fatte in equipe», ha sottolineato, dove «i punti di vista possono sempre essere diversi» e dove si giunge ad una conclusione tramite «contraddittorio». Il fatto di far passare le opinioni e le valutazioni di Monopoli come pressioni «è un artificio completamente sfornito di supporto probatorio», ha aggiunto. Il metodo di lavoro era «ragionare in prevenzione», come ha spiegato in aula l’assistente sociale Barbara Sebastiani, ovvero «segnalare» sospetti abusi e maltrattamenti alla procura «cercando di riferire il dato che noi avevamo, visto che non dovevamo compiere alcun tipo d’indagine». Dai racconti dei testi non c’è dunque traccia «di pressioni»: Cinzia Magnarelli, assistente sociale che ha patteggiato prima del processo - «colei che aveva scelto di salvarsi l’anima con la Santa Inquisizione confessando i propri peccati», ha sottolineato Canestrini -, parla, ad esempio, di un solo caso, quando la responsabile del servizio Federica Anghinolfi «mi aveva chiesto di intervenire in un evento pubblico riferendo che una minore “era stata stuprata”», con l’obiettivo di «generare pathos». Ma non inventando un abuso di sana pianta: «Il padre - ha sottolineato il legale - era stato indagato per violenza sessuale nei confronti della figlia». Le uniche vere «pressioni», ha affermato Canestrini, erano relative ai carichi di lavoro, svolgendo «fino a 20-25 ore in media al mese di straordinario». E Monopoli si preoccupava dei casi anche nel fine settimana, sentendo quei minori come «figli propri - ha aggiunto -. Quello che Monopoli voleva fare era prendersi cura dei minori» e il fatto di essere «ossessionato da possibili abusi» non può essere considerato strano in un gruppo contro abusi e maltrattamenti. Un po’ come contestare alla Dda - questo l’esempio di Canestrini - di andare a caccia di reati associativi.

Un’altra «lacuna incredibile» delle indagini è quella dei numeri: non è stato fatto, infatti, nessun accertamento sulle presunte anomalie relative ai numeri degli affidi. Mentre ci sono casi in cui un allontanamento nemmeno c’è stato, cosa che farebbe cadere lo schema costruito dall’accusa. Il massimo di pressione sugli psicologi che l’accusa sarebbe riuscita a dimostrare è quello riferito da Gabriela Gildoni, neuropsichiatra dell’Ausl: una pressione di tipo «emotivo, nel senso che il loro punto di vista, secondo loro, era talmente forte e valido da dire: se voi non considerate la gravità di questi ragazzini li avrete come responsabilità, quindi non fate il benessere dei nostri bambini». Insomma, nessuna forma di costrizione.

L’accusa ha dato molta enfasi ai 8380 messaggi nella chat di gruppo delle assistenti sociali. Una chat, ha spiegato in aula l’assistente sociale Cecilia Monasterolo, «non professionale», una forma «di decompressione dello stress lavorativo cercando di sdrammatizzare alcune situazioni che invece poi erano realmente drammatiche all’interno del lavoro». Insomma, nulla da prendere sul serio, secondo le stesse partecipanti, dove anche i commenti poco lusinghieri su Monopoli erano ironici. Definirlo «“un malato mentale” - aveva detto la teste -, era ironico e dipendeva dal fatto che era sempre lì con il pensiero, stressato», al punto da voler mollare. Ma non solo: la pm aveva valorizzato il tema degli appuntamenti che Monopoli faceva “saltare” indicandoli come metodo per aumentare l’isolamento della famiglia. Stando alla testimonianza di Monasterolo, però, la realtà era diversa: non si trattava di appuntamenti tra bambini e genitori, ma «di colloqui in cui magari doveva andare a scuola per seguire dei minori e poi alla fine venivano disdetti e le insegnanti richiamavano». Un sintomo della «difficoltà a lavorare sulle situazioni a 360 gradi tendendo insieme tutta la complessità che i casi da noi seguiti richiedono». Monopoli, al contrario, si attivava subito quando c’erano sospetti abusi ed emergenze. «Ma cos’altro avrebbe dovuto fare?», si è chiesto Canestrini. I testi dell’accusa hanno smentito categoricamente che Monopoli inventasse casi di abuso, che venivano segnalati dall’esterno e, dunque, mai messi in discussione, ma si sentiva «chiamato professionalmente a salvare i bambini», aveva spiegato la teste Valentina Leone, assistente sociale. «Abbiamo una decina di testi dell’accusa che negano di aver mai ricevuto indicazioni da Monopoli per scrivere il falso», ha evidenziato Canestrini. Che gli assistenti sociali avessero prodotto delle relazioni false Chierici ha dichiarato di averlo appreso solo dai giornali. «Il momento più luminoso di questa istruttoria - ha dichiarato Canestrini - è stato quello in cui è stata sì citata da parte della pubblica accusa una campagna di stampa, ma non per stigmatizzare quanto questo abbia nociuto al diritto ad un giusto processo. Non mi risulta un solo caso in cui l’accusa abbia chiesto ai giornali di rispettare i diritti di tutti. Quello che invece mi ricordo bene e che di chiedeva ai testimoni se leggevano il Dubbio. Come se alludesse al fatto che il problema era la cronaca. Il problema, è vero, è stato la cronaca, ma quella delle indagini, avendo invece voluto una diretta h24 in sede dibattimentale per spazzare via le infamanti ipotesi accusatorie che hanno colpito dei professionisti che stavano agendo al meglio delle loro possibilità per adempiere la loro funzione istituzionale».

Dopo Canestrini ha preso la parola anche Giuseppe Sambataro, altro difensore di Monopoli, che ha illustrato nel dettaglio alcuni dei casi a processo. «Sono confuso - ha esordito -. Quando ho letto per la prima volta i capi d’imputazione non li ho capiti, perché scritti in maniera contorta, cervellotica, capi d’imputazione che in realtà si smentiscono da soli». Anche influenzato dal racconto mediatico, Sambataro si aspettava «scenari horror». Ma ha constatato che «le ipotesi accusatorie sono rimaste come un’ombra sul muro e ogni volta che ci siamo avvicinati di rilevante non c’era assolutamente nulla». Come il tanto dibattuto tema della setta di pedofili che avrebbe orientato il lavoro dei servizi: «Si parlava di sette in relazioni a fatti riportati dai giornali» e tutto questo «chiacchiericcio» è rimasto fuori dalle relazioni. Che spesso non vengono nemmeno riportate in modo preciso nei capi d’imputazione. «Stringendo stringendo - ha aggiunto Sambataro - non rimane nulla». Ciò che è avvenuto è stato «trasformare in accuse da processo penale delle chiac22chiere da pausa caffè». E rispetto alla tanto discussa mancata consegna dei regali ai bambini, Sambataro ha chiarito che si trattò di un caso isolato: quei regali non furono consegnati perché nel frattempo sequestrati dai carabinieri. Nessun dolo, dunque.