PHOTO
Piercamillo Davigo, ospite del podcast di Fedez, Muschio Selvaggio, parlando della stagione di Mani Pulite, alla domanda del conduttore su come si fosse sentito quando alcuni indagati si tolsero la vita ha risposto: «Purtroppo, per quanto sia crudo quel che sto dicendo, in questo mestiere capita che gli imputati si suicidino».
L’ex magistrato del Pool poi ha aggiunto: «Lo so che è una cosa spiacevole quella che sto per dire, ma è la verità: le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono, non su coloro che li scoprono e li reprimono». Al termine, quando gli viene chiesto se gli fosse dispiaciuto quando qualcuno dei suoi indagati, ad esempio Raul Gardini, si tolse la vita, l’ex pm ha replicato: «Ma certo che dispiace» però «prima di tutto, se uno decide di suicidarsi lo perdi come possibile fonte di informazioni».
Insomma per Davigo nessuno scandalo, nessuna meraviglia se le persone investite da una inchiesta giudiziaria si tolgono la vita. Il problema semmai è che il pubblico ministero perde una fonte di informazioni. Il resto diviene superfluo: la gogna mediatica, l’arresto, le misure cautelari, la vita pubblica e privata distrutta, la presunzione di innocenza ridotta a brandelli. Quasi quasi per Davigo se lo sono cercato il suicidio, visto che erano colpevoli dal suo punto di vista, aspetto che però mai fu chiarito considerato che non ci fu il processo al morto. E comunque nulla giustificherebbe un atto simile.
Ma quanti furono i suicidi durante Tangentopoli? Se ne contano 41 tra politici e imprenditori. Come raccontò l’ex deputato Nando Dalla Chiesa a Blu Notte: «Ci furono decine di suicidi durante il biennio di Tangentopoli. Io feci anche uno studio in Parlamento. Credo che sia l’unico studio scientifico disponibile su quella vicenda. Il risultato è che i suicidi furono prodotti non tanto dalla detenzione in carcere, perché quasi tutti si uccisero fuori dal carcere, e molti anche dopo essere stati prosciolti. Era il clima dell’opinione pubblica che era insopportabile per chi avesse avuto comunque il marchio dell’indagine giudiziaria. Quindi, questo più che rinviare all’azione di magistrati, rinvia secondo me all’incapacità che in quel momento ebbero i giornali e l’opinione pubblica di mantenere un senso delle proporzioni».
Ma chi è che costruì un cordone ombelicale tra il Palazzo di Giustizia milanese e la stampa per creare un movimento di indignazione nella cittadinanza? La Procura di Milano. Il primo a togliersi la vita è stato Franco Franchi, socialista, dirigente di una USL di Milano, che il 23 maggio 1992 infila nella sua auto un tubo di gomma collegato a quello di scappamento, accende il motore e si siede al posto di guida. Sebbene non fosse ancora entrato nelle indagini, sapeva che prima o poi vi sarebbe rientrato. Il 2 settembre del 1992, si era sparato un colpo di fucile alla testa nella cantina della sua casa di Brescia Sergio Moroni, deputato socialista. L’uomo scrisse una lettera all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano nella quale parlò di ipocrisia e sciacallaggio e di un processo sommario e violento. Rifiutò di essere definito ladro e contestò di non aver mai preso una lira concludendo: «ma quando la parola è flebile non resta che il gesto».
Il 20 luglio 1993 si uccideva in cella, dov’era rinchiuso da quattro mesi, Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni. Nelle sue lettere esprimeva il senso di impotenza nei confronti della gogna mediatica a cui era sottoposto, nonostante si fosse dichiarato più volte estraneo alle tangenti. Tre giorni dopo con un colpo di rivoltella metteva fine alla sua vita Raul Gardini: non era ancora stato arrestato ma sapeva che i pm di Milano l’avevano nel mirino. Il 25 febbraio si tolse la vita Sergio Castellari, ex direttore generale del ministero delle Partecipazioni statali, che muore con un colpo di revolver Calibro 38.
Volendo abbandonare quella stagione, avvicinarci ai giorni nostri e tentare una analisi scientifica del fenomeno, è interessante leggere il report Per un’analisi dei suicidi negli Istituti penitenziari realizzato dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e pubblicato il 5 gennaio 2023. Nel 2022, negli istituti penitenziari sono decedute 85 detenuti per suicidio. In 76 casi (89,4%) è avvenuto per impiccamento, in 4 per inalazione di gas; in 3 per lesioni alle vene. In 2 casi il dato non è stato riportato. La posizione giuridica delle 85 persone era la seguente: 39 erano state giudicate in via definitiva e condannate e 5 avevano una posizione cosiddetta “mista con definitivo”, cioè avevano almeno una condanna definitiva e altri procedimenti penali in corso; 32 persone (38,1 %) erano in attesa di primo giudizio, 7 erano appellanti e 2 ricorrenti. Delle 42 persone condannate e con posizione “mista con definitivo”, 38 avevano una pena residua fino a 3 anni e 5 di esse avrebbero completato la pena entro l’anno in corso; altre 4 avevano una pena residua superiore ai 3 anni, mentre 1 soltanto aveva una pena residua superiore ai 10 anni. Risulta che 50 persone, pari al 59,5%, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione; di queste, 21 nei primi tre mesi dall’ingresso in Istituto e 15 entro i primi 10 giorni, 10 delle quali addirittura entro le prime 24 ore dall’ingresso.
Guardando ai dati degli ultimi 10 anni, si sono verificati 589 suicidi, di persone di età compresa tra i 18 anni e gli 83 anni, di cui 210 in attesa di primo giudizio. “Il dato relativo alle persone in attesa di primo giudizio rappresenta indubbiamente un campanello d’allarme. Difatti, esso indica come - soprattutto per chi è sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere - tale posizione sia correlata a un rischio maggiore di suicidio rispetto al condannato definivo», evidenzia il report. Eppure al 30 novembre 2023, secondo i dati del Ministero della Giustizia, in carcere ci sono 9486 reclusi in attesa di primo giudizio e 6.343 condannati non definitivi. E si ripropone, soprattutto con l’aumento del sovraffollamento, la questione dell’abuso della custodia cautelare.